18/10/2025
da Il Manifesto
Poco e niente. Il governo vara la sua quarta legge di bilancio. Si parte con 12 miliardi a cannoni, eserciti e missili, poco più di un caffè al giorno per i salari in crisi. Inizia il percorso verso il 5% di Pil in spesa militare che porterà a distruggere definitivamente il welfare. L’impegno del governo a nasconderlo
La quarta legge di bilancio varata ieri dal governo prepara un aumento delle spese militari da 12 miliardi di euro, una volta avuta la certezza del rientro dalla procedura di infrazione europea per deficit eccessivo al 3%. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che ieri ha regalato un’estemporanea presenza in una conferenza stampa a palazzo Chigi, e il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti, hanno precisato che i fondi ai militari saranno finanziati attraverso il progetto Safe, prestiti a lungo termine da ripagare a tassi convenienti alla Commissione Europea. E che, per ora, il premio alle lobby armate euro-atlantiche non comporterà altri tagli alla spesa sociale, in corso, né aumenterà le tasse. Accadrà dopo la fine della legislatura. Così si finanzierà l’aumento della spesa militare al 5% del Pil voluto da Nato e Trump.
«ABBIAMO UN PROBLEMA di spese per la difesa, ma anche l’esigenza di tenere in vita l’Ucraina – ha ammesso Giorgetti – Ho l’impressione che gli americani non siano molto convinti di contribuire. Fate voi i conti a chi tocca provvedere». A Meloni che paga il dazio all’alleanza con Trump. Nella prossima legge di bilancio è previsto un incremento della spesa sanitaria solo di 2 miliardi che non compensano quanto è stato perso negli ultimi anni rispetto al Pil. La spesa per la sanità privata (oggi a 41 miliardi, dice il Cnel) continuerà ad aumentare. Sta tutta qui la differenza tra il disastro italiano del welfare e l’economia di guerra verso la quale il governo Meloni sta portando l’Italia. Il confronto tra le cifre destinate dalla manovra all’uno e all’altra è impietoso.
OLTRE CHE AI MILITARI, e alle imprese alle quali ha garantito 4 miliardi di ammortamenti vari, l’esecutivo ha fatto un inchino ai banchieri. È la misura «super pop» della manovra tanto che può avere spinto persino una come Meloni a rispondere a qualche domanda dei giornalisti in conferenza stampa. Non accadeva dal gennaio di quest’anno. Dalla commedia sulla «tassa alle banche», inscenata in questi giorni, si è capito che i banchieri sono tra i pochi a decidere se e come essere tassati in Italia. Pur avendo aumentato in maniera esponenziale i profitti, grazie all’aumento dei tassi di interesse della Bce, Meloni & Co hanno evitato di disturbarli. «Nessuno è contento di essere tassato» ha detto Giorgetti che ha omesso di dire quanto sia squilibrato il sistema fiscale che punisce i salari e risparmia i profitti. Ieri il governo non è riuscito davvero a spiegare il significato del «contributo volontario» chiesto alle banche. E se nel triennio non daranno 11 miliardi alla causa, chi paga? Le coperture di questa manovra sono davvero coperte?
MELONI HA DETTO ieri di avere fatto anche cose buone. Nella manovra da 18 miliardi di euro sono previsti 1,9 miliardi che finanzieranno la detassazione dei premi di produttività del salario dei turni notturni e festivi. Ci sarebbe anche un fondo per il rinnovo dei contratti nel pubblico impiego. Colpisce l’esiguità delle risorse rispetto alla mole degli investimenti militari futuri. Ma anche rispetto alla montagna di denaro perso dai lavoratori per l’inflazione post-covid e le speculazioni sul costo dell’energia. La trovata sui salari, ha evidenziato il ministro Giorgetti, sarebbe il segno che il governo ascolta i sindacati. Si tratterebbe di uno «sconto» riservato ai salari contrattuali sotto i 28 mila euro di reddito. La misura, destinata a chi fa lavori usuranti, dimostra anche che non ci sono sufficienti risorse per garantire il dovuto a tutti i lavoratori.
L’ALTRA GAMBA dell’intervento sui salari è quella fiscale attraverso il taglio dell’Irpef dal 35% al 33% per i redditi fino ai 50 mila euro e, si è scoperto ieri nella conferenza stampa, addirittura fino ai 200 mila euro. Colpisce l’irrazionalità – oltre che l’iniquità – di una norma che pretende di intervenire fiscalmente sulla dinamica salariale, pensando che ciò basti per rilanciare i consumi e persino per risolvere il problema della produttività del lavoro. Come per il «taglio del cuneo fiscale» degli anni scorsi, queste costosissime decisioni aumenteranno il risparmio e non i consumi. A partire dai 29 mila euro di reddito si parla di un beneficio annuo 20 euro (1,70 al mese) fino ad arrivare ai 50 mila per cui c’è un beneficio annuo 440 euro: 36,70 al mese.
La redazione consiglia:
Bastano 2 caffé al giorno per risollevare i salari
ANCHE NELLE SCIOCCHEZZE c’è una logica. Quella del governo ritiene che chi ha più soldi inizierebbe a spendere di più, ma il problema è di chi ha meno e non avvertirà alcun beneficio da una misura resa impalpabile anche dal costo reale della vita. Sempre che non scatti un’aliquota Irpef più alta, aumentando il peso della tassazione, com’è già successo con le altre trovate fiscali del governo. I 2,8 miliardi necessari per il nuovo intervento sull’Irpef rischiano così di essere di nuovo vanificati. Meloni ha insistito su un’altra illusione: quella per cui oggi i salari sono più alti dell’inflazione. Lo sono solo perché l’inflazione è calata. La realtà è tutt’altra. I salari non hanno recuperato il +8,1% del 2022 e il +5,7% del 2023. Il potere d’acquisto resta più basso rispetto a quello di prima del Covid. Anche per questo il «lavoro povero» aumenta. Ci sarà la quinta rottamazione delle cartelle fiscali: durerà 9 anni con rate bimestrali di pari importo. Varrà per chi ha dichiarato, ma non versato. Con il nuovo condono lo Stato agevola il pagamento dei debiti e lascerà che ci si impoverisca con più tranquillità.
MELONI & CO. non hanno intenzione, né la possibilità, di rimediare alle conseguenze della svalutazione interna dei salari. Anche loro però non respingono l’idea di aumentarli. Il problema è il sistema politico-economico in cui prendono le decisioni. Il patto capestro di stabilità, firmato da Meloni a Bruxelles, respinge ogni tentativo di fare politica dei salari. Ieri Giorgetti ha di nuovo fatto l’elogio del record di avanzo primario di bilancio accumulato dalla sua gestione. Non serve a diminuire il debito pubblico record, blocca gli investimenti, ammazza i salari. Ma serve a gonfiare il petto davanti alle agenzie di rating.
LE PENSIONI sono l’altra prova della subalternità delle destre all’egemonia neoliberale. Nella manovra c’è l’elemosina di 20 euro ai pensionati al minimo, ma soprattutto l’innalzamento dell’età pensionabile: un mese nel 2027, due dal 2028. Così si passerà presto da 67 a 70 anni. L’idea è lavorare peggio, pagati male, sempre più a lungo. E dire che volevano abolire la «riforma» Fornero.
NULLA È LA MANOVRA, e non solo perché, come altre, non produrrà crescita. Non ci sono investimenti. I pochi vengono dal Pnrr, in scadenza a giugno 2026. Da questo piano saranno stornati 5 miliardi che non si riescono a spendere. Saranno usati per le coperture finanziarie della manovra, forse con il benestare di Bruxelles. Solo briciole. Il governo Meloni se le fa bastare.