19/08/2025
da Left
In mare il linguaggio è semplice: o proteggi le persone e chi le salva, oppure proteggi il ricatto di chi punta le armi.
A 35 miglia da Zawiya, in acque internazionali, la nave umanitaria Mediterranea è stata circondata per due ore da otto barchini con il segnale di riconoscimento spento (AIS). Alla radio insulti e intimidazioni: «Andate via». I mezzi sono rientrati verso la costa libica. Su uno si vede la livrea della Gacs, la polizia costiera del ministero dell’Interno (che opera su motovedette cedute dell’Italia, ndr), su altri il simbolo della Stability Support Authority (SSA), un potente gruppo armato di Tripoli. È il cortocircuito che conosciamo: sigle statali e milizie che si muovono insieme.
L’episodio fotografa un sistema. Da anni l’Italia e l’Unione europea finanziano la “gestione” dei confini in Libia. Il risultato è sotto gli occhi: navi civili minacciate in mare, persone intercettate e riportate in centri dove le agenzie dell’Onu segnalano violenze e detenzioni arbitrarie.
La catena di comando è opaca, le sigle si sovrappongono, la linea tra Stato e bande si sbriciola. Quando un mezzo con colori ufficiali agisce come un gruppo irregolare, una quota di responsabilità ricade anche su chi paga.
Il punto ora è pratico. Servono tre decisioni verificabili: trasparenza su chi comanda cosa, sospensione dei fondi alle unità coinvolte in minacce o abusi, corridoi legali e missioni di soccorso europee coordinate. Continuare a delegare al buio significa accettare che scene come quella di Zawiya diventino routine. In mare il linguaggio è semplice: o proteggi le persone e chi le salva, oppure proteggi il ricatto di chi punta le armi. E questo non può essere il nostro nome nel Mediterraneo.