25/11/2025
da Il manifesto
La sconfitta. Giorgia Meloni ha perso. Non servono analisi minuziose per cogliere il senso di questo voto
Giorgia Meloni ha perso. Non servono analisi minuziose per cogliere il senso di questo voto: è la prima vera sconfitta politica della premier dal trionfo del 2022. Da Johannesburg la leader se la cava con commenti ai confini del burocratico. La vittoria nel Veneto «è frutto del lavoro, della credibilità e serietà della nostra coalizione». Complimenti a Stefani, congratulazioni a Fico e Decaro e passiamo oltre. Ma passare oltre stavolta non sarà facile.
LA SCONFITTA DI FDI si è consumata prima di tutto nell’unica piazza conquistata senza nessunissima sorpresa dalla destra, nel Veneto bianco. La vittoria schiacciante, Stefani al 64% contro il 29% di Manildo era scontata. La partita era tra il partito della premier, forte degli strepitosi successi delle politiche e delle europee, e la Lega all’inseguimento nel nome del doge Luca Zaia. Non solo il Carroccio ha riagguantato i tricolori: li ha doppiati con il 36 contro il 18%. È un trionfo non di Salvini ma di Zaia, che intende passare all’incasso imponendo alla Lega il modello Cdu-Csu, con se stesso nella parte del capo dei “bavaresi” d’Italia.
Ma questo per la premier fa poca differenza: con una Lega che si è ripresa lo scettro dovrà trattare e non da posizioni di forza su tutto. Sugli assessorati che nella regione intendeva affidare tutti ai suoi Fratelli, sull’autonomia differenziata che Zaia, nelle materie non soggette ai Lep, reclamerà seduta stante, sulla candidatura per la Lombardia, quando sarà il momento. Un Salvini che così giulivo non lo si vedeva da anni spara razzi e mortaretti per la «vittoria con proporzioni notevolissime», confessa di sentirsi schiacciato dal peso della storica responsabilità, assicura che «i patti saranno onorati». Poi però butta là come se niente fosse che «in Lombardia la Lega può raggiungere lo stesso risultato» e se non è una richiesta di ridiscutere l’accordo che assegnerebbe la Lombardia a FdI poco ci manca.
PER MELONI TUTTO CIÒ non sarebbe gravissimo se la campagna della Campania non si fosse conclusa con una rotta totale. Nonostante la scelta azzardata di mettere in campo un esponente di primo piano del partito e del governo come il viceministro degli Esteri Cirielli e quella di inventarsi un condono edilizio sul pronto, il centrodestra è stato travolto con un risultato da Ko, 61,3% contro il 35% del viceministro, appena meglio della Puglia, dove Decaro ha steso l’avversario Lobuono con oltre 30 punti di scarto. Ma in Puglia la destra non ci aveva neppure provato, l' aveva subito data per persa. In Campania invece si è battuta, pur se tardi e male. La sconfitta qui brucia molto di più. Brucia soprattutto perché se l’esito di queste regionali venisse replicato nelle politiche, anzi se anche si limitasse a uno scarto di 10 punti percentuali a favore del Campo largo, in quelle regioni l’attuale maggioranza non porterebbe a casa neppure un seggio nella quota maggioritaria. Con ogni probabilità perderebbe quindi le elezioni. Per la premier cambiare legge elettorale, adesso, non è più un’opzione ma un obbligo.
IN NOME DELLA “stabilità”, Donzelli già si è lanciato: «C’è una riflessione che viene fatta sulla legge elettorale». Traduzione: qui tocca eliminare di corsa la quota maggioritaria. Tajani spalleggia: «Sempre stato favorevole al proporzionale». Ma anche nel Pd alla fine hanno imparato a far di conto e Taruffi si barrica: «Questa non è la legge elettorale migliore del mondo. Ma funziona e non si capisce perché cambiarla». In realtà gli sherpa di FdI e del Pd avevano già intavolato conciliaboli per definire una legge vantaggiosamente reciproca. Ma le cose sono cambiate e sono cambiate grazie al voto dei pugliesi e dei campani. Certo, nulla impedisce alla maggioranza di farsi la propria legge elettorale e imporla col voto di fiducia. Ma perdere i collegi, per una Lega ringalluzzita come mai prima, è un sacrificio. Salvini cercherà, nella migliore delle ipotesi, di farselo pagare con gli interessi.
L’ultimo tassello che completa la giornata nera della premier è che la tornata delle regionali d’autunno si è conclusa con un pareggio di nome, tre a tre, ma con una sconfitta di fatto. È il peggior viatico per il referendum di primavera.

