17/10/2025
da Valori
Uno studio quantifica le esternalità ambientali negative delle attività economiche: costi che pesano sulla società, non sui responsabili
Migliaia di miliardi di dollari di denaro pubblico vengono spesi per finanziare attività che danneggiano l’ambiente. Per la precisione, tra i 1.700 e i 3.200 miliardi di dollari ogni anno: lo dice una ricerca dell’Università autonoma di Barcellona. Cifra sbalorditive che potrebbero, se meglio indirizzate, contribuire a mitigare la crisi climatica e rendere più resilienti i territori. A riceverle questo vertiginoso volume di denaro sono sei settori specifici: agricoltura, combustibili fossili, silvicoltura, infrastrutture, pesca e acquacoltura, estrazione di metalli. Ognuno di questi di per sé adotta pratiche che danneggiano l’ambiente, ma non finisce qui: agli impatti diretti bisogna aggiungere le cosiddette esternalità ambientali negative.
Cosa sono le esternalità ambientali negative
Inquinamento, distruzione degli habitat, emissioni di gas serra sono esternalità ambientali negative. Ciò significa che gli attori economici sono responsabili di questi impatti ma a pagarli è la società, perché non vengono contabilizzati nei prezzi di mercato delle attività. Il loro valore varia tra i 10.500 e i 22.600 miliardi di dollari ogni anno. E si tratta di stime al ribasso. Le zone d’ombra dei dati sono troppe e questo lascia ipotizzare che la reale portata sia molto più vasta. «Il sistema globale di sussidi attuale – si legge nello studio – incentiva principalmente le attività che accelerano lo sfruttamento della biosfera». In altre parole politiche, leggi e regolamenti esistenti non sono affatto neutrali: il loro effetto è promuovere un modello economico insostenibile.
Lo sottolinea anche Marco Armiero, docente dell’Istituto di Storia della scienza dell’Università Autonoma di Barcellona. «Questo articolo – commenta – è importante perché pone un problema preciso, affermando che il danno ambientale e i cambiamenti climatici non sono un errore, un bug di questo sistema economico che bisogna correggere. Il messaggio delle colleghe e dei colleghi che hanno fatto lo studio è che in realtà sono prodotti di scelte precise. Così questa ricerca demistifica molto di quello che sappiamo o crediamo di sapere su capitalismo e mercato. L’idea che il mercato sia padrone di sé e si autoregoli funziona solo nelle fantasie di chi fa profitti. Perché in realtà questo capitalismo è molto meno basato sul libero mercato di quanto si dice, visto che funziona grazie a poderosi investimenti statali».
I settori con le esternalità ambientali negative più alte: agroindustria e combustibili fossili
Secondo lo studio, sei settori chiave generano specifiche esternalità ambientali negative che si aggiungono ai loro costi diretti sugli ecosistemi. A partire dall’agricoltura industriale, che ha visto una crescita esponenziale a partire dal 1961 influenzando sei dei nove limiti planetari. Gran parte dei fondi ricevuti (635 miliardi di dollari nel 2021) è stata destinata ad attività dannose per l’ambiente, come l’utilizzo eccessivo di fertilizzanti o la conversione di terre e foreste a coltivazioni o allevamenti intensivi. Queste sovvenzioni pubbliche contribuiscono a esternalità ambientali negative stimate tra i 3.300 e i 10mila miliardi di dollari.
Anche i combustibili fossili raccolgono una enorme quantità di risorse nonostante le loro conclamate responsabilità per la crisi climatica. Ogni anno i governi finanziano la loro estrazione, lavorazione e consumo con una cifra che va dai 577 ai 1.260 miliardi di dollari. Le esternalità ambientali negative, che vanno dagli impatti sulla salute al contributo all’inquinamento atmosferico a quello alla crisi climatica, sono stimate in circa 5.250 miliardi di dollari all’anno. E cosa succederebbe rimuovendo questi sussidi e internalizzando le esternalità, cioè incorporandole nel prezzo del bene finale? Le emissioni globali di CO2 scenderebbero del 43% entro il 2030.
Senza i sussidi pubblici, la pesca in alto mare non sarebbe redditizia
Altro settore sotto la lente di ricercatrici e ricercatori è la silvicoltura. I sussidi che direttamente o indirettamente incoraggiano la perdita di foreste hanno raggiunto i 175 miliardi di dollari nel 2024. Le esternalità ambientali negative sono stimate tra 935 e 1.930 miliardi di dollari all’anno.
I sussidi alla pesca, che vanno dai 35,4 ai 55 miliardi di dollari all’anno, finiscono per distorcere i mercati perché sostengono attività (come la pesca in alto mare) che, altrimenti, non sarebbero redditizie. Così facendo incentivano l’eccesso di capacità delle flotte, portando alla sovrapesca e al declino della biodiversità marina. Ne deriva anche un vantaggio sleale per quei Paesi che possono permettersi di sovvenzionare le proprie flotte. Le esternalità ambientali negative sono stimate in 83 miliardi di dollari all’anno. Per l’acquacoltura, invece si calcolano 5,24 miliardi di dollari in sussidi diretti solo per i principali produttori.
I sussidi pubblici boicottano l’economia circolare nel settore dei metalli
Esorbitanti anche le cifre che riguardano le infrastrutture. Il loro sviluppo, soprattutto di quelle stradali e irrigue, causa deforestazione, perdita di habitat e inquinamento. Eppure, dal 2015 ha incassato circa 2.300 miliardi di dollari di fondi pubblici: tra i 224 e i 586 miliardi di dollari all’anno per la costruzione e manutenzione delle strade e tra i 5,82 e i 158 miliardi di dollari all’anno per l’irrigazione. Mancano completamente, invece, stime globali sulle esternalità ambientali negative.
L’estrazione mineraria ha impatti ambientali locali e globali, dalla perdita di habitat alla contaminazione di suolo e acqua. Quella di minerali metallici avviene per l’80% in biomi ricchi di specie e vicino a territori protetti. Perché non seguire il paradigma dell’economia circolare e puntare sui metalli riciclati? Perché i sussidi pubblici (stimati, al ribasso, in 40 miliardi di dollari per l’estrazione non energetica) continuano a favorire chi li estrae dalla natura.
Un cambiamento radicale a tutela della natura è possibile
Le autrici e gli autori dello studio concordano sul fatto che sia necessario un cambiamento sistemico a tutela della biodiversità e degli ecosistemi. «La dipendenza del benessere umano e delle attività economiche dalla natura – scrivono – è intrinseca»: più della metà del Pil globale dipende moderatamente o altamente dalla natura e dai suoi servizi. Eppure, stiamo attivamente sovvenzionando la sua distruzione.
È una posizione ben nota a livello internazionale. Durante la Cop15 sulla biodiversità, tenutasi nel 2022 in Canada, la comunità internazionale si è impegnata a ridurre i sussidi dannosi di almeno 500 miliardi di dollari all’anno entro il 2030. Esistono esempi virtuosi in questa direzione. La Nuova Zelanda ha riformato i suoi incentivi alla pesca basandosi su criteri di sostenibilità rigorosi. L’Inghilterra premia con fondi specifici la gestione sostenibile dei terreni.
Rendere strutturale questo cambiamento significa prima di tutto costruire una base di calcolo condivisa, capace di distinguere i sussidi dannosi da quelli che proteggono la natura e di stimare le esternalità ambientali negative. È un processo che comporta delle difficoltà, da conoscere e tenere in considerazione. Rimuovere i sussidi all’agricoltura industriale, ad esempio, potrebbe innescare un aumento dei costi alimentari nel breve termine.
«Servirebbe un red green new deal»
Studi come questo mostrano chiaramente che non possiamo più considerare il degrado ambientale come un errore del sistema. È il risultato diretto di un disegno economico che favorisce l’estrazione e l’accumulazione. La buona notizia è che, riconoscendo la radice del problema, abbiamo il potere di ridisegnare questo sistema per un futuro in armonia con la natura. Ragionando sulla forma che il cambiamento dovrebbe assumere, Marco Armiero ipotizza la necessità di un red green new deal.
«Collettivamente – spiega – investiamo per sostenere i profitti di pochi e per far ammalare il Pianeta e noi stessi. Al tempo stesso scegliamo di non investire in settori che servirebbero per la riproduzione sociale. Tagliamo su tutto quello che serve a far star meglio il Pianeta e ciascuna e ciascuno di noi: sanità, scuola, università, ricerca, verde, trasporti pubblici…». Succede, continua il ricercatore, con la scusa dell’assenza di fondi: «Ma non è vero che non ci sono. Si sceglie di destinarli ad altro, ad attività dannose». Parlare di red green new deal significa invece «investire sui settori della cura, tagliando su ciò che genera distruzione dell’ambiente e della salute collettiva».