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Migranti invisibili in fabbrica

Migranti invisibili in fabbrica

C’è stato un giorno, a marzo del 2019, in cui un lavoratore straniero ha perso la vita all’interno di un’industria del Nord Italia. Non era un tecnico specializzato né un dirigente. Era un operaio della carne. Non aveva un nome che i giornali abbiano mai riportato. Aveva però una madre, una figlia appena adolescente, una compagna — madre di quella bambina — e sei fratelli che lo amavano.

Il suo lavoro era faticoso, ripetitivo, pericoloso, ma nessuno gli aveva mai consegnato un manuale. Nessuno lo aveva formato davvero. Gli dicevano solo di “fare in fretta”, di “fare come fanno tutti”, di “non creare problemi”. L’ingranaggio doveva girare. Sempre.

E quando l’ingranaggio si è inceppato — con lui dentro — il sistema ha reagito come sa fare: ha negato. Ha detto che non era responsabilità sua. Che “forse è stato lui”, che “non doveva essere lì”. E ha continuato a produrre.

Non era nemmeno un dipendente diretto. Lavorava per una cooperativa, in appalto. Un nome diverso, una scatola in più. La fabbrica vera, quella che dava ordini, firmava solo contratti con terzi. Impartiva direttive, ma non si assumeva colpe.

Per anni, la giustizia ha taciuto. Il procedimento penale è stato archiviato dalla Procura competente. Non perché qualcuno sia stato assolto, ma perché — dicevano — non si era riusciti nemmeno a individuare chi avesse azionato la macchina che lo ha ucciso. L’ultima beffa: una morte senza colpevole. Una vita cancellata senza nessuno da ritenere responsabile.

Nessuno ha mai detto: “Abbiamo sbagliato”. Si è preferito dire: “È stata una sua imprudenza”. Per lavarsi la coscienza, per tornare ai numeri del fatturato.

Ma ora qualcosa si è mosso. Un giudice — finalmente — ha avuto il coraggio e la coscienza di rimettere i punti al loro posto. In sede civile, ha ricostruito i fatti, riconosciuto le responsabilità, dato dignità alla verità. Ha detto che no, non è stato lui. Che sì, le responsabilità ci sono. E portano nomi, ruoli, contratti. Che non si può nascondere un sistema dietro una sigla o un appalto.

È un primo passo. Non ancora nel penale, dove si aspetta — e si pretende — che chi ha sbagliato paghi, ma è una breccia aperta nel silenzio e nell’indifferenza. È la dimostrazione che il diritto può ancora servire alla giustizia. Che la memoria di un uomo invisibile può diventare visibile nelle aule di tribunale.

Viviamo in un tempo che divora umanità, in cui la vita di un lavoratore — soprattutto se migrante, invisibile, precario — vale meno di un fermo macchina. In cui una figlia cresce senza un padre, mentre le aziende continuano indisturbate a produrre, a nascondersi dietro contratti, sigle, sigilli.

Ma chi ha visto quel corpo spezzato, chi ha ascoltato il dolore di una madre, chi ha guardato negli occhi quella compagna che non ha potuto nemmeno dire addio, sa che non è stato un incidente. È stato il frutto di un sistema disumano e disumanizzante.

Perché quando la vita di un uomo viene trattata come un fastidio, una variabile sacrificabile sull’altare dell’efficienza, non è solo lui a morire. È l’idea stessa di giustizia che viene sepolta sotto i macchinari.

Ma non stavolta. Stavolta la giustizia ha cominciato a respirare.

25/07/2025

da Pressenza

Patrizia Carteri   Avvocato civilista e penalista iscritto all’albo degli avvocati di Locri dal 1998. Dopo una prima e formativa esperienza presso studio legale Maio a Locri (sede della prima raccolta di leggi scritte - codex - nel mondo) si trasferisce a Milano, conservando etica ed empatia improntati al diritto romano, approfondito fin dagli studi presso l’importante facoltà di giurisprudenza a Messina, che ha visto come docenti il Prof. Falzea. Il suo modo di fare e applicare il diritto è divulgativo, nel senso migliore di essere operatori e informatori di diritti e doveri. Lo studio legale si trova a Milano in zona Città Studi. 

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