Ligi al motto dei Riva «chi inquina non paga», i franco-indiani stanno strozzando governo e Acciaierie d’Italia. Ora però anche gli ambientalisti si preoccupano. Come i sindacati
Per chiunque abbia a cuore la salute delle persone che abitano nei quartieri adiacenti all’ex Ilva di Taranto, definita nel 2012 da un’ordinanza di sequestro «impianto che produce malattia e morte anche nei bambini», la paventata chiusura della fabbrica in conseguenza della crisi di liquidità che l’attraversa, sembrerebbe essere una buona notizia.
MA È DAVVERO COSÌ? Non a queste condizioni. Dicono da Giustizia per Taranto, una delle maggiori associazioni ambientaliste cittadine: «mentre continuiamo ad assistere allo sperpero di enormi quantità di fondi pubblici che continuano a gravare sui contribuenti, oggi la città rischia di subire conseguenze enormi a livello sociale, con decine di migliaia di licenziamenti e, anche dal punto ambientale, dato che i progetti di decarbonizzazione risultano quanto mai parziali e non risolutivi dei problemi della nostra comunità».
Sostiene l’associazione che «l’unica soluzione sensata è quella di usare quei soldi per programmare la riconversione economica di Taranto e il reimpiego dei lavoratori nelle bonifiche, prima che sia davvero troppo tardi». Intanto, appare sempre più fosco il destino di Acciaierie d’Italia alla luce delle due assemblee dei soci che si sono tenute il 23 e il 28 novembre, con la proprietà privata, la multinazionale Arcelor Mittal, che ha escluso la sua partecipazione all’aumento di capitale, mentre il governo, per mano del ministro Raffaele Fitto, che ha commissariato Adolfo Urso per decisione di Meloni, ha promesso alla multinazionale franco-indiana un ulteriore stanziamento di 4,62 miliardi di euro – di cui 2,3 da reperire nell’ambito del Repower Eu – in un memorandum che è rimasto segreto perfino anche all’amministratore delegato di Invitalia, il socio pubblico al 38 per cento delle quote di Adi, Bernardo Mattarella.
INVITALIA A INIZIO ANNO ha sottoscritto un prestito di 680 milioni di euro, tecnicamente un finanziamento soci a futuro aumento di capitale. Lo stato potrebbe convertire una parte di questo finanziamento ad aumento di capitale. Ma in questo modo Mittal non metterebbe più un euro e il piano di Fitto naufragherebbe.
Il mandato con cui i franco-indiani hanno imposto «la tagliatrice di teste e di spese» Lucia Morselli ad amministratrice delegata è chiaro: disimpegno finanziario totale. E lei da due anni sta tenendo in scacco lo stato italiano e ora il governo Meloni.
Piccole svolte. “Giustizia per Taranto” e “Una strada diversa” sulla stessa posizione di Fiom Uilm e Usb: «La chiusura avrebbe enormi conseguenze sociali e ambientali»
«È IL MOMENTO per la politica locale e nazionale di immaginare e programmare una via di uscita da questa situazione, perché l’ex Ilva, nonostante l’enorme spreco di risorse pubbliche, non è mai stata così vicina alla chiusura come oggi», dice al Manifesto Luca Contrario, consigliere comunale nella città dei due mari con il movimento “Una strada diversa” che sostiene la giunta del sindaco Rinaldo Melucci. Per il consigliere, «questa notizia dovrebbe fare felice tutti noi attivisti No Ilva». E invece – prosegue – «una chiusura non programmata rischia di rappresentare sia una bomba sociale con la perdita di migliaia di posti di lavoro, sia una bomba ambientale in assenza di interventi, investimenti e bonifiche».
La soluzione, però, ci sarebbe, ed è quella immaginata già da tempo dalla vasta galassia delle associazioni ambientaliste cittadine, una linea che Contrario sposa in pieno: «serve un accordo di programma tra tutte le parti in causa, governo, istituzioni locali, sindacati, ed associazioni, finalizzato alla chiusura programmata, accompagnata da un piano di bonifiche e di riconversione economica del territorio con l’utilizzo degli operai». Si chiede il consigliere: «davvero lo Stato si può fidare ancora di Arcelor Mittal per rilanciare un sito di cui ha appreso ogni segreto industriale ma a cui ha sottratto tutti i clienti, con l’unico effetto di aver acquisito quote di mercato necessari all’aumento dei suoi profitti?».
Arcelor Mittal con Lucia Morselli porta avanti la strategia di non mettere più un euro. E Invitalia non sa come contrastarla. Intanto è stato fermato anche l’altoforno 2
IN EFFETTI, A TARANTO, a fidarsi di Arcelor, non è rimasto nessuno, nemmeno nella locale Confindustria, i cui imprenditori associati dell’indotto sono stritolati dai debiti e dai ricatti, come questo giornale ha raccontato in solitaria. E della multinazionale non si fidano neppure più i sindacati confederali, che proprio in queste ore riconoscono che la grande fabbrica di Taranto sembra essere arrivata al capolinea.
«Il problema non è più avere una reale paura che lo stabilimento chiuda, ormai è una certezza», ha detto oggi (ieri. n.d.r) il segretario generale dei metalmeccanici della Uil, Rocco Palombella, intervenendo a Bari nel corso dello sciopero generale delle regioni del sud Italia. «Ci sono due altiforni in marcia su tre e ieri è stata ventilata dall’azienda la possibilità di chiudere un ulteriore altoforno, così ne rimarrebbe solo uno», secondo Palombella: «questo significa che lo stabilimento si ferma per sfinimento, non è più nelle condizioni di poter andare avanti».
«Non c’è più tempo, occorre fare in fretta, il Governo decida, perché se fossero confermate le voci della fermata dell’altoforno 2, ciò metterebbe seriamente a rischio la sicurezza dei lavoratori e degli impianti stessi, determinando una chiusura definitiva dello stabilimento siderurgico», conferma Loris Scarpa, coordinatore nazionale siderurgia per la Fiom-Cgil. Non solo. Scarpa rivela a il Manifesto che «l’azienda, nella giornata di ieri, ha mandato a tutti i lavoratori una comunicazione di natura vessatoria e propagandistica, tra l’altro, in un momento in cui è proclamato lo stato di agitazione in tutto il gruppo». Si tratta di un premio introdotto unilateralmente da Arcelor Mittal previsto sulla riduzione degli infortuni, pari a cento euro ogni dipendente, con erogazione a partire da febbraio e misurato su dicembre. «Altro che febbraio» – continua il sindacalista della Fiom: «questa lettera è anche palesemente sbagliata nei termini e nelle scadenze, perché tutto ciò avviene nel momento in cui si stanno decidendo le sorti di un gruppo industriale che potrebbe fermarsi da un momento all’altro». Conclude Scarpa: questo nei fatti conferma che, per l’azienda, la sicurezza e la salute sono legate ai comportamenti dei singoli lavoratori e non agli investimenti».
LA MISURA È COLMA anche per gli altri sindacati. L’Unione Sindacale di Base, Usb, per esempio, ha annunciato in queste ore di aver proclamato una manifestazione a Taranto per il 20 gennaio. La posizione del sindacato di base ribadita in una nota è che «solo lo Stato potrà garantire la piena tutela dei posti di lavoro per i lavoratori di Acciaierie d’Italia, di Ilva in amministrazione straordinaria e di quelli dell’appalto, rilanciando lo stabilimento dentro un piano industriale capace di guardare oltre la fabbrica guardando al futuro attraverso un modello di sviluppo economico sostenibile, utile al rilancio del territorio».
SIA COME SIA, DALLA RIUNIONE del prossimo consiglio di amministrazione di Acciaierie d’Italia che si terrà il prossimo 6 dicembre, sarà lecito non aspettarsi molto. «Così come da questo governo», lascia intendere ancora Rocco Palombella: «ieri abbiamo scritto una nuova lettera per cercare di sollecitare il governo sull’ex Ilva, ma l’esecutivo non ha idea di come intervenire su una vertenza che riguarda 20mila lavoratori».
03/12/2023
Gaetano De Monte, TARANTO
da il Manifesto