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Nell'era del potere verticale il cittadino conta sempre meno

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25/10/2025

da Avvenire 

di Agostino Giovagnoli

La concentrazione di potere nell’esecutivo è il riflesso di una spinta verso una società più autoritaria, più centralistica, più gerarchica. Negli Usa, ma anche un po' in Italia

«No King» gridano nelle piazze gli avversari di Trump, denunciando un potere che vuole cambiare la società americana e il mondo intero agendo dall’alto. Lui stesso si è rappresentato – in un video creato dall’Intelligenza artificiale – con la corona in testa mentre dall’alto rovescia letame su quanti protestano contro di lui, abbracciando in modo ostentato il politicamente scorretto. Un potere dall’alto su una società che non oppone resistenza o le cui resistenze sono considerate irrilevanti o, addirittura, illegittime. Trump esprime così una tendenza sempre più diffusa nel mondo occidentale: la concentrazione di potere nell’esecutivo. È il riflesso politico-istituzionale di una spinta più generale verso una società più autoritaria, più centralistica, più gerarchica. Insomma, più verticale. Tendenze in parte analoghe sembrano emergere anche in Italia, seppure in forme molto diverse.

C’è chi ne vede tracce in leggi già approvate – come il decreto sicurezza – e in riforme annunciate – come quella del premierato. Secondo i suoi critici questa – definita dai proponenti «madre di tutte le riforme» – darebbe grandi poteri al capo del governo, renderebbe il Parlamento un’appendice dell’esecutivo, svuoterebbe il ruolo del Presidente della Repubblica. Di sicuro, accrescerebbe il peso dell’esecutivo: è questo il suo scopo dichiarato. Al momento è stata accantonata, ma si annuncia una legge ordinaria che andrebbe nella stessa direzione, introducendo l’indicazione del premier nella scheda elettorale. (Altra legge verticalizzante è quella proposta per eleggere i sindaci con solo il 40% dei voti - in pratica, il 20% degli elettori o meno – di fatto abolendo il doppio turno). A prescindere da riforme o leggi già fatte o da fare, l’esecutivo si è comunque già rafforzato, con una riduzione del ruolo del Parlamento, della sua iniziativa, dei suoi spazi di discussione ecc.

L’accentramento trumpiano del potere si scontra anzitutto con le resistenze dei giudici. Anche in Italia, è ormai in atto da tempo uno scontro tra governo e magistratura e il prossimo referendum sulla riforma della giustizia rischia di essere percepito come una resa dei conti tra poteri sul cui equilibrio si è fondato fino ad oggi lo Stato. È inoltre indicativo l’iter seguito da questa riforma: gestita fin dall’inizio direttamente dal governo, sta per essere approvata definitivamente senza momenti di vero confronto non solo tra governo e giudici ma anche tra maggioranza e opposizione e persino all’interno della stessa maggioranza. Nel merito, la riforma non propone solo la separazione delle carriere tra Pubblici ministeri e magistratura giudicante, ma ha la sua novità più importante in due Csm – uno per i giudici e uno per i Pm – in cui i loro rappresentanti non sarebbero più eletti ma sorteggiati. Ma senza elezione, questi Csm garantirebbero quell’autogoverno considerato garanzia dell’indipendenza e autonomia della magistratura previste dall’art. 104 della Costituzione?

Tra i principali bersagli di Trump ci sono state anche le università. In Italia è in arrivo una riforma delle università, di cui si sottolinea la novità dell’ingresso di rappresentanti del governo e degli enti locali nei Cda degli Atenei, chiamati anche a seguire i piani stabiliti annualmente del ministero. Si teme una limitazione dell’autonomia universitaria e della stessa libertà di insegnamento. I rettori potrebbero restare in carica fino a sedici anni, accumulando un enorme potere. Sarebbe inoltre eliminato il controllo della qualità sui nuovi docenti o ricercatori da parte di altri docenti o ricercatori, sostituiti dall’algoritmo, mentre si amplia il numero delle università telematiche. C’è chi vede una sintonia tra questi indirizzi e altre scelte nel campo della politica culturale. Questi timori possono essere fondati oppure no o solo in parte. Ma è indubbio che siano in atto forti spinte per la verticalizzazione del potere. In una società complessa, si afferma, occorrono rapidità e certezza delle decisioni, come quelle prese dal Ceo in un’azienda, e c’è bisogno di governi più forti, pur continuando a prevedersi forme di investitura elettorale di chi li guida. Si va verso sistemi politico-istituzionali diversi da quello tradizionale basato sull’equilibrio dei poteri, la centralità del parlamento, il rispetto delle minoranze ecc. Tutto ciò può rappresentare una risposta ad alcuni problemi, ma ne crea altri che bisogna prevedere e affrontare.

Non è un caso che le democrazie rappresentative siano sistemi lenti e faticosi: devono infatti coinvolgere il più possibile e garantire tutti. La loro crisi vuol dire perdita della centralità del cittadino. Piuttosto che dai cittadini, infatti, i leader politici cercano sempre più consensi da elettori che votano in base all’attesa di vedere difeso il proprio status economico-sociale. Non è la stessa cosa. Intorno alla figura del cittadino, infatti, si sono sviluppate nel tempo politiche pubbliche di grande importanza per garantire il rispetto dei diritti fondamentali di tutti, la lotta contro le discriminazioni, l’inclusione dei marginali, il sostegno dei più deboli... Come garantire tutto questo in un sistema in cui non sono più al centro i cittadini e cioè uomini e donne considerati nella loro piena dignità?

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