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Netanyahu all’Onu esibisce la linea dura di Israele

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Di cessate il fuoco tra Israele e Hezbollah, per non citare Hamas, non se ne parla neppure. «Andremo avanti fino alla vittoria», dice Netanyahu che non teme l’ira di Biden e tanto meno dell’Onu, ma quella del suo ministro della sicurezza Ben Gvir, come, dopo Orteca, avverte anche il Manifesto. Sintesi di una grande arroganza di fronte al mondo, prima di ragionarne con Alberto Negri in una sua ampia sintesi.

«Io so’ io e voi non siate un …..»

Qualche applauso e molte contestazioni, delegazoni che lasciano la sala, all’arrivo del premier israeliano all’Assemblea Generale dell’Onu. Netanyahu denuncia le “menzogne e calunnie” contro il suo Paese. “Il mio paese è in guerra, combatte per la sua sopravvivenza. Ma dopo aver sentito le bugie e le calunnie da molti oratori su questo podio, ho deciso di venire e mettere le cose in chiaro”.
“Hamas deve andarsene, se rimane al potere continuerà ad attaccare. Lo Stato ebraico non vede alcun ruolo per Hamas in una Gaza dopo la guerra”.
Libano: “Finché Hezbollah sceglie la guerra, Israele non ha alternative”, assicurando che lo Stato ebraico continuerà gli attacchi sin dove necessario.
Per finire con l’Iran: “Se ci attaccate, vi colpiremo”. “Teheran sta cercando di imporre il suo radicalismo ben oltre il Medio Oriente”, ha aggiunto, precisando che “Israele è stato costretto a difendersi su sei fronti sostenuti dall’Iran”.

La pace può attendere

L’obiettivo primario di Netanyahu, è restare al potere a qualunque costo proseguendo il conflitto a Gaza e quello contro Hezbollah e il Libano. Lo farà con questa coalizione di sionisti radicali fino a quando potrà: nei suoi piani c’è quello di aspettare l’insediamento del prossimo presidente americano. Il massacro di Hamas del 7 ottobre 2023 gli ha consentito di proseguire la sua carriera politica e di sfuggire alla giustizia, oltre ogni previsione.

Guerra estesa e discredito Usa

In tutto questo non solo sta trascinando Israele e il Medio Oriente verso un conflitto più ampio ma ha gettato il discredito sull’amministrazione americana rimandando indietro più volte, con ogni scusa possibile, il piano Biden per una tregua. Blinken è stato trattato da lui come un postino, tanto è vero che qualche giorno fa ha lasciato la regione alla svelta. In questo frangente si è avuta un’altra conferma di chi decide davvero tra Tel Aviv e Washington.

Da alleati a complici

Gli Usa, come avviene da anni, sono i suoi complici più importanti. Il 23 agosto hanno deciso di dare a Tel Aviv altri 20 miliardi di dollari di aiuti militari tra cui 50 caccia bombardieri F-15. E si deve essere ancora più espliciti: tra il suo preferito Trump – colui che ha riconosciuto la sovranità israeliana sul Golan e spostato l’ambasciata Usa a Gerusalemme – e la democratica Kamala Harris, attuale vicepresidente, per Netanyahu non c’è troppa differenza.

Catastrofica gestione politica

L’amministrazione democratica ha soddisfatto tutte le richieste di aiuti militari, ha accettato l’espansione delle colonie in Cisgiordania (con flebili proteste) e ha lasciato che decine di migliaia di coloni venissero armati dall’ esercito israeliano come ammesso dallo stesso capo dello Shin Bet. Quanto al Libano la mediazione Usa tra Israele e Hezbollah si è materializzata nel nominare come “inviato di pace” Amos Hochstein, cittadino Usa ma ex ufficiale dell’esercito israeliano, che è come avere messo la volpe nel pollaio.

Secondo dilemma, i profughi di casa

Secondo dilemma di Netanyahu: far ritornare 60mila israeliani nei villaggi dell’Alta Galilea e l’invasione di terra del Libano. Israele ha invaso il Libano nel 1978 e nel 1982, poi ha lasciato nel 2000 la “fascia di sicurezza” e il confine è tracciato dalla Linea Blu dove ci sono i soldati Onu della missione Unifil (tra questi 1000 italiani). Con la guerra del 2006 Israele ha riprovato a penetrare in Libano ma nonostante 28 giorni di bombardamenti devastanti le truppe ebraiche sono state fermate sulla linea di Bint Jabayl.

Oltre il fiume Litani

Per far rientrare i profughi israeliani al Nord i comandi israeliani puntano sull’arretramento di Hezbollah e della sua artiglieria oltre il fiume Litani. L’invasione di terra avrebbe questo obiettivo. Ma non è detto che funzioni. Hezbollah è un’organizzazione di guerriglia addestrata e sperimentata (Siria, Iraq, Yemen) e le truppe israeliane potrebbero restare impantanate. Mentre i bombardamenti israeliani di questi giorni hanno prodotto centinaia di migliaia di profughi verso Beirut, la valle della Bekaa e verso la Siria. Scenario sempre più complicato.

Terza dilemma, l’Iran

E veniamo al terzo dilemma di Netanyahu che è anche il nostro. Il premier oggi davanti all’Onu, come ha fatto in tutti questi vent’anni al potere, ribadisce bdi fatto che il vero nemico è l’Iran. Il premier sta provando in ogni modo a far entrare Teheran in un conflitto diretto con Israele in modo da provocare l’intervento degli Stati Uniti a fianco dello stato ebraico. E un intervento americano significa anche la mobilitazione degli alleati degli Usa fuori e dentro la regione.

La ‘Grande guerra’ per il potere

È la “grande guerra” che sognano i più estremisti dei sionisti per regolare i conti in Medio Oriente. Ma come dimostra anche il recente passato non solo nessun conflitto ha risolto i problemi della regione ma al contrario ha aperto il vaso di Pandora del caos e della distruzione (Afghanistan, Iraq, Siria, Libia). La “grande guerra” si deciderà, forse, con l’uscita di scena di Biden, un addio che in Medio Oriente non lascia rimpianti ma neppure molte speranze.

28/09/2024

da Remocontro

Alberto Negri

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