Palestina. Colpita una scuola-rifugio: almeno 18 morti, tra loro dei bambini. La Ghf sospende gli aiuti e veto Usa in Consiglio di Sicurezza su cessate il fuoco e ripresa dell’assistenza umanitaria. Il racconto del paramedico sopravvissuto alla strage del 23 marzo: il grido per salvarsi, «sono israeliano»
Mohammed al-Heila è morto tra le braccia di Asaad al-Nasasra. Era l’alba del 23 marzo. A Tal el-Sultan, profondo sud di Gaza, in pochi minuti si è consumato l’orrore. Dell’esecuzione dei 15 paramedici palestinesi da parte dell’esercito israeliano si sa ormai molto: la sparizione, la strage, il tentativo dei militari israeliani di nascondere corpi e ambulanze sotto terra. Ieri il Guardian ha aggiunto un altro tassello: la Mezzaluna rossa palestinese ha condiviso il racconto di al-Nasasra, paramedico di 47 anni, uno dei due sopravvissuti al massacro e detenuto in un carcere israeliano per 37 giorni, tra torture e fame.
AL-NASASRA era alla guida di una delle due ambulanze quando sono caduti nell’imboscata israeliana. Una selva di spari, i primi uccisi. Gli altri sono stati finiti con colpi ravvicinati, lo raccontano i proiettili che hanno fracassato i crani e penetrato le schiene. «Ha provato a nascondersi coprendosi di terra – dice la Mezzaluna – Il corpo di Mohammed al-Heila era sopra di lui». Al-Heila era ferito, lo ha abbracciato prima di morire.
Poi sono arrivati i soldati: «Al-Nasasra ha sentito che sparavano a chi era ancora vivo». Lui ha fatto l’unica cosa che sperava lo avrebbe salvato: ha gridato in ebraico «non sparate, sono israeliano» (sua madre è una palestinese cittadina d’Israele). «Il soldato è andato in confusione», aggiunge la Mezzaluna. Lo hanno costretto a spogliarsi, lo hanno bendato e lo hanno portato via.
È rimasto prigioniero fino al 29 aprile, «soggetto ad attacchi fisici, picchiato, affamato. È stato tenuto in una cella con musica altissima, gli israeliani la chiamano “la disco-room”. Ti fa impazzire». Il rilascio, ha detto l’esercito al Guardian, è avvenuto perché contro di lui non sono state trovate prove di «coinvolgimento in attività terroristiche». Un’assenza di prove che vale per migliaia di palestinesi catturati a Gaza.
«L’impunità apre le porte ad altre atrocità», aveva commentato l’Unwra, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, che nel massacro di Tal el-Sultan ha perso un collega. Non mancano esempi: ieri Haaretz ha riportato della promozione a comandante di un ufficiale che lo scorso dicembre aveva ordinato ai soldati di aprire il fuoco contro due palestinesi che sventolavano bandiera bianca lungo il corridoio Netzarim.
E LE STRAGI proseguono: tra martedì e mercoledì, in 24 ore, l’esercito israeliano ha ucciso almeno 95 palestinesi. Una notte di attacchi feroci, che ha trovato l’apice a Khan Younis nel bombardamento di una scuola rifugio agli sfollati: almeno 18 uccisi, tra cui dei bambini. E poi Jabaliya, Gaza City, la tendopoli di al-Mawasi.
A colpire sono spesso i droni, come raccontano testimoni scampati al fuoco di quadricotteri mentre scappavano da Shujayea. «I missili dei droni – scrive il giornalista Hani Mahmoud – sono fatali. Quando esplodono, le schegge e i pezzi di metallo all’interno si disperdono ad alta velocità, trapassano i corpi e causano gravi emorragie». Servirebbe sangue fresco, quasi introvabile a Gaza, denunciano i pochi ospedali parzialmente funzionanti: il 60% delle banche del sangue e dei laboratori sono totalmente distrutti.
E poi c’è la fame. Con i valichi chiusi agli aiuti dell’Onu e delle ong, resta solo la trappola mortale imbastita dalla fondazione statunitense-israeliana Ghf che ieri, dopo tre giorni di stragi di affamati, ha sospeso le operazioni per, dice, «rinnovamento e riorganizzazione».
Sulla questione del blocco degli aiuti, attivo ormai dal 2 marzo scorso, si è riunito ieri il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, troppo tardi per noi. Sul tavolo una bozza di risoluzione che chiede «il cessate il fuoco immediato, incondizionato e permanente», il rilascio degli ostaggi e la sospensione di tutte le limitazioni all’assistenza umanitaria. Atteso il veto Usa: Washington lo ha anticipato a Tel Aviv, fa sapere Axios.
Intanto il Palestinian Prisoners’ Club ha reso noto l’ennesimo decesso in prigione: un uomo di 70 anni di Gaza, Muhammad Abu Habl, morto il 10 gennaio. Padre di 11 figli, era stato arrestato a un checkpoint a novembre 2024.
05/06/2025
da Il Manifesto