16/10/2025
da La Notizia
A Gaza la pace continua a essere un modo elegante per dire che la guerra ha cambiato forma.
Oggi, mentre a Palazzo Chigi si discute di «ricostruzione» e il ministro Tajani la chiama «svolta storica», le autorità locali aggiornano il bilancio a 67.938 morti. Poche ore fa due palestinesi sono stati uccisi a est di Gaza City, altri corpi sono stati consegnati senza nome, e il valico di Rafah è rimasto chiuso. Quattrocento camion di aiuti aspettano ancora il permesso di entrare, mentre le famiglie restano accampate tra le rovine, in attesa di sacchi di farina che non arrivano.
Nella Striscia la fame e la sete hanno preso il posto dei droni. L’acqua resta sotto i sei litri al giorno per persona, gli ospedali funzionano al sedici per cento, la carestia è totale. È la definizione esatta di genocidio a bassa intensità, come lo chiamano i giuristi dell’Onu: una morte lenta, calcolata, con la burocrazia al posto delle bombe. L’assedio è diventato la nuova normalità, una prigione amministrata da chi decide chi può respirare e chi no.
Eppure da Roma si parla di «ripartenza». Il governo annuncia un inviato speciale e promette «scuole nuove» dove non ci sono più bambini. L’Europa si limita a riattivare missioni “in standby” e a ripetere che serve una pace “giusta e duratura”. Ma la giustizia non è nei dossier: è sepolta sotto le macerie insieme ai nomi delle vittime. Nelle stesse ore, a Khan Younis e Rafah si continua a scavare con le mani, tra le tende e la polvere, per ritrovare corpi che nessuno registra più.
Gaza non è in ricostruzione. È ancora sotto assedio. E ogni volta che qualcuno pronuncia la parola “pace” mentre l’acqua resta chiusa, quel silenzio fa più rumore di un bombardamento. Per questo tutti gli occhi devono restare su Gaza.