“Gli sforzi per alleviare la carestia richiedono acqua, servizi igienico-sanitari, infrastrutture adeguate e assistenza sanitaria. Abbiamo più di mezzo milione di persone in movimento da Rafah. È semplicemente impossibile fornire questi servizi in queste condizioni. È necessario ORA un accesso umanitario duraturo”. Gli appelli delle Nazioni Unite si fanno insistenti mentre la situazione a Gaza diventa sempre più catastrofica. L’esodo di massa di più di 600.000 persone, sfollate forzatamente dalla città di Rafah, nella quale si rifugiava la maggior parte della popolazione della Striscia, sta avvenendo senza alcun supporto. Impossibile per gli operatori dell’UNRWA, l’agenzia ONU che si occupa dei profughi palestinesi da quando è stata fondata, nel dicembre del 1949, fornire in queste condizioni l’assistenza necessaria. Il piano israeliano di attacco a Rafah è cominciato forse in maniera diversa da ciò che ci si attendeva: dopo aver preso possesso della zona del valico con l’Egitto i carri armati stanno avanzando lentamente e i combattimenti nella zona orientale della città rimangono violenti. Ma ciò che più di tutto le organizzazioni umanitarie temevano, sta comunque avvenendo. Con volantini, telefonate, messaggi, Israele ha ordinato ai profughi di Rafah di andar via per avere salva la propria vita e quella dei propri familiari. Ci sono persone sfollate tante di quelle volte da aver perso praticamente ogni cosa e che ora smontano le assi di legno delle tende del campo profughi in cui erano finite sperando di poterle utilizzare altrove.
Il Programma Alimentare Mondiale (World Food Program) ha fatto sapere che le sue scorte di cibo e carburante a Gaza si esauriranno “nel giro di pochi giorni” e un’ulteriore escalation israeliana potrebbe causare una “catastrofe umanitaria”. Il molo galleggiante che gli Stati Uniti ritengono possibile diventi attivo nei prossimi giorni è fortemente criticato dalle ONG, che lo reputano “una risposta a un problema che non esiste” perché i valichi per far entrare gli aiuti già ci sono e Israele deve solamente consentirne l’apertura. Inoltre, una volta giunti al molo, le difficoltà di smistamento rimarrebbero esattamente le stesse per la mancanza di carburante. Una spedizione britannica di quasi 100 tonnellate di aiuti avrebbe lasciato Cipro alla volta del molo e Washington ha assicurato che le sue truppe non entreranno a Gaza ma si occuperanno solo della distribuzione.
Deir el-Bala, la città della costa verso cui Israele ha ordinato ai palestinesi di sfollare, è diventata presto un accampamento senza strutture che accoglie migliaia di persone. I bombardamenti su Gaza, dal nord al sud, sembrano tornati alla somma violenza dei primi giorni e il numero dei morti continua a salire. Nella strage del campo profughi di Nuseirat, sono morte famiglie che avevano lasciato Rafah solo pochi giorni prima. Il numero delle persone rimaste sotto le macerie è impossibile da definire con precisione, la protezione civile palestinese lavora senza mezzi né strumenti per tentare di recuperare le persone rimaste vive, in una corsa contro il tempo che sembra dimenticare, nella disperazione, il collasso totale del sistema sanitario, la chiusura degli ospedali per distruzione o per mancanza di gasolio.
L’uscita verso l’Egitto, che rappresentava l’unica speranza di salvezza per centinaia di feriti e ammalati, è diventata una chimera. Nel tentativo estremo di sminuire la portata delle conseguenze delle offensive militari, Tel Aviv ha scaricato sul Cairo la responsabilità della chiusura del valico di Rafah. L’Egitto ha fatto sapere che potrebbe unirsi al Sudafrica per il procedimento contro Israele alla Corte Internazionale di Giustizia e che magari smetterà di mediare con Hamas per il rilascio degli ostaggi. Così, mercoledì il governo ha inviato una delegazione israeliana al Cairo per stemperare le tensioni e riportare serenità nei rapporti con un “alleato” davvero troppo importante per Tel Aviv, soprattutto in un momento in cui il sostegno globale è messo in discussione e la “vittoria” contro Hamas si allontana. Il nord della Striscia, che Israele aveva definito “libero dai terroristi” è terreno di duri scontri armati. Oggi l’esercito ha fatto sapere che cinque soldati sono stati uccisi e 7 feriti da “fuoco amico”, colpiti da un carro armato israeliano forse perché scambiati per miliziani.
La sconfitta di Hamas non sembra essere dietro l’angolo, dunque, ma la Gaza del “giorno dopo” rimane ancora un interrogativo strategico per Israele. Il fatto che il governo Netanyahu, nonostante si sforzi di comunicare sicurezza e lungimiranza, non abbia idea di cosa fare una volta finita la guerra, si legge con disarmante chiarezza nelle dichiarazioni dei membri dell’esecutivo. Mentre il Ministro della sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir, parla senza remore di mandare via i palestinesi dalla Striscia e metterci al loro posto gli israeliani, mercoledì Yoav Gallant, Ministro della difesa, si è detto contrario a un governo militare a Gaza e ha di fatto sfidato il premier a dichiarare una volta per tutte quali siano le sue intenzioni. Alla domanda sul “dopo Hamas”, tuttavia, Netanyahu ha risposto con un “né Hamas né l’Autorità Nazionale Palestinese”. Le dichiarazioni di Gallant hanno dato comunque il via al gioco internazionale del “denuncia l’amico di Hamas” che fino ad ora ha coinvolto membri delle Nazioni Unite, capi di stato, giornalisti, accademici, medici, scrittori, attori, giuristi in giro per il mondo. Per la prima volta però, ieri i concorrenti erano i membri del governo israeliano: mentre il ministro della guerra Benny Gantz si è schierato dalla parte di Gallant, Ben Gvir e il ministro delle finanze Bezalel Smotrich lo hanno accusato di sostenere il movimento islamico.
La spaccatura nella leadership non mette però in discussione le posizioni dei ministri più estremisti, i quali assecondano e proteggono i coloni israeliani che continuano a bloccare e distruggere i convogli di aiuti che attraversano la Cisgiordania occupata per giungere a Gaza. Ieri hanno fermato due camion che pensavano si dirigessero verso la Striscia, hanno picchiato un conducente e dato alle fiamme gli pneumatici. Le autorità israeliane hanno fatto sapere che si trattava in realtà di due camion commerciali palestinesi che non avevano a che fare con la consegna di aiuti.
Il terremoto politico in Israele avviene nelle ore in cui la Corte Internazionale di Giustizia annuncia una nuova audizione, giovedì 16 e venerdì 17 maggio, su richiesta del Sudafrica che chiede ulteriori misure di emergenza e che si ordini a Israele un ritiro immediato da Rafah. L’attacco all’ultima città-rifugio è stata definita dagli avvocati di Pretoria un “rischio estremo” per “le forniture umanitarie e i servizi di base, per il sistema medico e per la sopravvivenza stessa dei palestinesi come gruppo”. Dal 7 ottobre a Gaza sono stati uccise più di 35.000 persone, tra cui più di 15.000 bambini. Pagine Esteri
16/05/2024
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