28/09/2025
da Left
Dall’inizio della guerra in Ucraina, opposizioni e media si sono più volte scagliati – a ragione – contro la Lega, chiedendo conto dell’accordo di collaborazione stretto, e mai sospeso, con il partito putiniano Russia Unita. Perché allora nessuno ricorda pubblicamente l’alleanza formale di Meloni con il Likud?
In questi giorni, davanti al collasso totale della situazione palestinese, vediamo Stati europei, Onu e altri attori internazionali prendere posizione in modo sempre più evidente, per quanto tardivo. Ma al tempo stesso, osserviamo la posizione a detta di alcuni prudente, in realtà vigliacca del governo italiano: non vuole riconosce ora la Palestina (salvo ipotizzare un riconoscimento condizionato al rilascio degli ostaggi e alla esclusione di Hamas da qualsiasi dinamica di governo, e oggi in serata rincara stigmatizzando la Flottilla come strumento per dare problemi al governo ndr), non condanna in modo forte e netto il criminale governo di Netanyahu, continua a parlare soltanto di reazione proporzionata che non viene condivisa o approvata, rifiuta le sentenze internazionali sul genocidio, si oppone alle sanzioni pur minime che l’Ue ha iniziato a mettere sul tavolo. Ci si interroga sulle motivazioni di questo atteggiamento: qualcuno parla di strategie diplomatiche, nel tentativo di non minare le basi stabilite a Oslo decenni fa, che vorrebbero un iter differente per il riconoscimento dello stato palestinese; altri insistono sull’allineamento irrinunciabile con l’alleato Trump, che però sembra ben poco interessato alla giustizia e ai diritti umanitari. È difficile individuare profondi ragionamenti diplomatici da parte di Meloni, tanto più nell’isolamento rispetto a Paesi con grandi tradizioni diplomatiche come Uk e Francia. Trump è certo una delle chiavi per interpretare le scelte italiane, e allora va riconosciuto che si tratta di allineamento a una figura pericolosa e criminale anche in questo caso. Ma manca un tassello, perché è pur vero che le scelte della presidente del Consiglio sono sempre state ponderate, solo in relazione a una sua discutibile collocazione ideologica.
Dall’inizio della guerra in Ucraina, opposizioni e media si sono più volte scagliati – a ragione – contro la Lega, chiedendo conto dell’accordo di collaborazione stretto, e mai sospeso, con il partito putiniano Russia Unita. Perché allora nessuno ricorda pubblicamente l’alleanza formale di Meloni con il Likud? È ovvio, non può colpire i suoi partner, così come con Trump, altrimenti sconfesserebbe la sua visione e l’asse internazionale attorno a cui ruota. E così, va bene qualche sanzione ai coloni più violenti, ma non ci si può sbilanciare e colpire il governo israeliano a guida Likud.
Il partito di Netanyahu – da sempre contrario alla possibilità che i palestinesi si autodeterminino nella loro stessa terra, anche senza il supporto dei fanatici messianici – è uno dei più stretti Global Partners dell’Ecr. Il partito europeo di Meloni ha organizzato in passato convegni a Gerusalemme, in collaborazione con gli occupanti della città; ha ospitato esponenti della destra israeliana in eventi per la promozione del neoconservatorismo e del ruolo superiore dell’Occidente, in un mix di evangelismo messianico e reazionario. A maggio 2025, a genocidio già acclarato, una delegazione di Ecr si è recata in Israele, per rinsaldare un caposaldo nel programma conservatore, la necessaria alleanza, in nome della reciproca difesa, fra l’Europa delle Nazioni e Israele (avamposto coloniale del conservatorismo). Ma non è solo Meloni: anche Salvini nel gruppo dei Patriots – nato alle ultime elezioni europee – annovera fra i suoi membri osservatori il Likud.
Perché nessuno pone l’accento su alleanze formali con un partito politico a guida criminale? Questo elementi potrebbero anche pesare nelle valutazioni su eventuali complicità, o quanto meno sui mancati interventi di contrasto imposti dal diritto internazionale. Nei mesi scorsi, vari esponenti di governo si sono spinti a dichiarare che se Netanyahu si fosse recato in Italia, contrariamente a quanto chiesto dalla Cpi, non sarebbe stato arrestato. Ma tutte le azioni di Meloni & co. vanno lette in base a questi accordi, testimonianza di una condivisione di intenti nazionalistici deleteri.
Già nel 1948, in una lettera al New York Times, figure come Albert Einstein e Hannah Arendt – certo non tacciabili di antisemitismo – condannarono la deriva nazi-fascista della politica israeliana, nei metodi e nelle idee, riferendosi in particolare a Begin, capo delle squadracce paramilitari Irgun (artefici di innumerevoli attacchi a civili palestinesi fin dagli anni Trenta), primo ministro, e infine mentore di Bibi Netanyahu e fondatore del Likud, guida politica mai rinnegata (un po’ come il criminale Almirante per Meloni).
Nelle radici storiche sta il trait d’union profondo tra ECR e Likud, il nazionalismo. Di per sé il sionismo è una forma di nazionalismo, nata nel XIX sec. sulle stesse basi del mito germanico e di altri nazionalismi europei. Arendt ravvisava il rischio di una deriva in un nazionalismo a base etnico-religiosa così forte. E parole ancor più chiare sono quelle di Victor Klemperer – filologo tedesco di religione ebraica, perseguitato dai nazisti e autore di uno studio fondamentale sulla lingua del Terzo Reich –, che nei suoi diari, con la lucidità propria del mestiere, ravvisava affinità e parentela ideologica di fondo tra le proposte sioniste – fin da Herzl – e il razzismo germanico – anche nella variante hitleriana. Quando a prendere il sopravvento è poi il sionismo di destra, che da Haganah e Irgun arriva fino al Likud e ai coloni messianici, l’esito atroce è scontato.
Nel cinismo totale, il criminale Smotrich attacca l’UK per il riconoscimento della Palestina, e dice che non c’è più il mandato britannico, e nessuno può più dirgli cosa fare, perciò si prenderanno la Cisgiordania. La follia vuole riscrivere la storia, che vide in realtà la nascita di Israele favorita dalle logiche mandatarie, fin dai tempi di Balfour (1917), proprio a scapito delle popolazioni locali, alla fine condannate all’esilio, private delle terre in cui vivevano da generazioni. Oggi come allora l’unica strada giusta è un’altra, e anche riconoscere la Palestina può essere solo una tappa intermedia in quella più valida direzione, indicata da intellettuali palestinesi come Edward Said, ma anche da Noam Chomsky e Ilan Pappé, ebrei e dunque anche questa volta di sicuro non antisemiti: un unico stato multietnico, plurale, laico nei suoi apparati, non più confessionale e benché meno messianico, in cui tutti avranno il diritto di abitare la terra legata alla propria identità culturale, stando gli uni accanto agli altri, senza pretese di elezione o eccezionalismo, tanto per chi da generazioni e secoli abitava quei luoghi – i palestinesi – quanto per quelle persone di religione ebraica che desiderano vivere nella terra che sentono come sacra (senza contare che il sionismo portò lì ebrei europei, ma già alcuni palestinesi di religione ebraica vivevano in quei territori da secoli, senza problemi con gli altri palestinesi). Ma è la varia molteplicità dell’esistenza che i nazionalisti di ECR e Likud combattono, in nome dell’invenzione malata della nazione, con le sue idee di uniformità e tradizione a cui tutti devono sottostare.
Assistiamo quotidianamente all’immobilismo del governo, a certo opinionismo squallido nella difesa a spada tratta di Israele, al punto che si vorrebbe dettare ai manifestanti lo slogan, Free Palestine from Hamas, anche se le bombe sono lanciate dalla non democratica Israele, oggi come fra 2008 e 2009 con l’operazione Piombo Fuso. E allora, ben vengano le proteste, gli scioperi, le occupazioni studentesche, la sospensione di incarichi di docenza per professori che nella professione di sionismo difendono l’operato dell’Idf. Non si deve mai sfociare nella violenza, e episodi del genere sono assolutamente da condannare, ma non inficiano in nulla la validità del grido che si sta levando dalla società civile italiana, ancor più a fronte di un governo che vorrebbe silenziare, soffocare il dibattito, fin dentro scuole e università, che invece sono i luoghi in cui bisogna educare la pensiero critico (certo non all’artificio retorico che impone con la forza ottusa le sue idee, nello stile di Charlie Kirk, il cui omicidio è assolutamente da condannare, senza però santificarlo e difenderne le idee a priori). Ma ECR ha come suo motto Bringing common sense back. Il common sense era però il presunto organo conoscitivo individuato da varie correnti filosofiche di inizio XIX sec., in opposizione alla ragione illuminista, al criticismo kantiano e al moderno dubbio che arricchisce il sapere. Il pensiero critico è «un avvedersi di credenze stolte / che per lungo portar l’alma contrasse», come insegna Leopardi – figlio dell’illuminismo, attento alla relatività e varietà – proprio attaccando con sarcasmo i seguaci del common sense, reazionari e rigidi conservatori, guidati da schemi mentali nemici della realtà.