«Il peggioramento degli impatti climatici porterà l’inflazione alle stelle, a meno che ogni Paese non adotti misure più coraggiose per combattere il cambiamento climatico»
In una lettera pubblicata ieri, un gruppo di personalità legate al tema del riscaldamento globale ha scritto che le Conferenze delle Parti, la COP Onu, questa di Baku la numero 29, «non sono più adatte a raggiungere i loro obiettivi e vanno riformate». A Baku sono 1.773 gli accreditati che spingono per petrolio e gas, più dei delegati dei dieci paesi vulnerabili.
Conferenze delle Parti sul clima, Cop29
Che per le Cop sia ora di cambiare è senso comune, tra gli addetti ai lavori. Quando a dirlo sono alcune delle persone che il meccanismo Cop hanno contribuito a crearlo, però, l’impatto è diverso. Le Conferenze delle Parti sul clima, o Cop, sono gli incontri negoziali annuali sul contrasto alla crisi climatica organizzati dalle Nazioni Unite. Nascono nel 1994 e sono oggi alla loro ventinovesima edizione, in corso in questi giorni a Baku, Azerbaigian. Secondo i firmatari della lettera, molte le contradizioni cruciali da superare, a partire dalla sede ospitante che esprime anche la presidenza. Basta summit nei petrostati come Emirati Arabi Uniti e Azerbaigian.
La corruttiva lobby del fossile
Altro punto cruciale, l’influenza della lobby fossile deve essere quantomeno contenuta. Quest’anno, secondo la campagna Kick Big Polluters Out, i lobbisti dell’oil&gas accreditati sono almeno 1.773: più dei delegati dei dieci paesi più vulnerabili, sommati. Tra i partecipanti anche l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi, che potrà entrare al summit come «ospite della presidenza». Il terzo punto chiave della lettera è conseguente: perché siano produttive e avviare soluzioni democratiche, le Cop devono tenersi più spesso e, soprattutto, dare più spazio alle nazioni cosiddette ‘in via di sviluppo’.
Valutazione ‘Guardian’
Secondo il Guardian, che ha dato notizia del testo indirizzato alle Nazioni Unite, gli autori sono di primo livello. Tra loro figurano l’ex segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, l’ex presidente dell’Unfccc Christiana Figueres, l’ex alta commissaria per i rifugiati ed ex-presidente irlandese Mary Robinson, lo scienziato-star Johan Rockström. Un parterre eccellente che però, difficilmente, porterà a riforme nell’immediato futuro. Per modificare la convenzione che regola i negoziati servirebbe un consenso arduo da immaginare.
Lavorio diplomatico a fatica
E mentre da fuori si riflette su come cambiare, riflette amato Lorenzo Tecleme sul manifesto, da dentro il lavorìo diplomatico procede a fatica. Gli inviati dei governi di tutto il mondo devono accordarsi sul ‘New Collective Quantified Goal’, i finanziamenti che dal mondo industrializzato andranno ad aiutare la transizione nel cosiddetto ‘Sud globale’. Uno studio commissionato dalle presidenze di turno delle Cop stima il fabbisogno dei paesi cosiddetti in via di sviluppo in 1.000 miliardi annui a partire dal 2030, e 1.300 miliardi annui a partire dal 2035. Esattamente ciò che volevano sentire i governi africani, latinoamericani e asiatici, che hanno subito fatto proprie queste cifre.
La finanza privata piglia tutto
La parte del leone, nello studio, la fa la finanza privata. Ma una parte significativa dovrebbe venire dal pubblico – e i paesi più vulnerabili (e poveri) insistono su questa componente per almeno due ragioni. Solo dagli Stati si può sperare di ottenere finanziamenti a fondo perduto, senza essere costretti a scegliere tra entità del debito e tempi di transizione. Secondo, solo gli Stati possono finanziare progetti ‘di adattamento’, che pur essendo indispensabili per le comunità locali non portano nessun ritorno economico.
Wall Street, ecologia a guadagno
I grandi fondi di Wall Street possono volentieri finanziare parchi eolici o solari in Africa, specie se con cospicue garanzie pubbliche, ma non metteranno mai i loro soldi su progetti di riforestazione o contrasto al dissesto idrogeologico. In ogni caso, l’accordo è lontano: l’ultima bozza disponibile è di ben 25 pagine, sostanzialmente un lungo elenco di tutte le ipotesi in campo. E non aiuta il comportamento dei padroni di casa azeri, che hanno iniziato una serie di ‘singolar tenzoni’ con le nazioni europee. Centro dell’ostilità è la Francia, rea di appoggiare la rivale Armenia nel decennale conflitto per il controllo del Nagorno-Karabakh.
L’ambientalismo azzero, meno di zero
Il presidente azero Ilham Aliyev ha ricordato le popolazioni delle «colonie francesi d’oltremare brutalmente represse dal regime». Aliyev se l’è presa anche con i Paesi Bassi, anche loro ancora titolari di territori d’oltremare, e «il Parlamento europeo che condivide con Macron la responsabilità per l’uccisione di civili innocenti». Diplomazia raffinata. Da lì le proteste sdegnate delle autorità comunitarie, mentre la ministra francese della transizione, Pannier-Runacher, ha detto al Senato che a Baku lei non andrà proprio. Una defezione che pesa: sono i ministri, alla fine, a dare luce verde per gli impegni finanziari.
Baku-Roma, amicizia molto interessata
Ilham Aliyev, da vent’anni presidente dell’Azerbaigian: «Esportare più gas verso l’Europa non è stata una nostra idea» ha spiegato dal palco del summit sul clima di Baku, «bensì una proposta della Commissione europea». «Gli serviva il nostro gas per via della mutata situazione geopolitica (l’embargo alla Russia), e ci hanno chiesto una mano» ha concluso Aliyev. Ed è tutto vero: in quel momento molti Paesi del continente si chiedevano come sostituire il gas russo da cui dipendevano. La ragione politica e morale di questa necessità, si diceva all’epoca, è smettere di finanziare la guerra russa in Ucraina.
Azerbaigian ed Europa, Azerbaigian e Italia
È in territorio azero, allora ancora Impero Russo, che nel 1848 venne estratto il primo barile di petrolio. A distanza di un secolo e mezzo, i combustibili fossili rappresentano il 35% del Pil del Paese, e la parte indispensabile della sua economia. Il 95% dell’export azero (e il 90% dei profitti) è combustibile fossile, e il 60% delle entrate pubbliche. Senza vendere gas e petrolio non si pagano gli stipendi. L’Unione europea è il primo partner commerciale del Paese, seguito da Russia e Turchia. L’Italia da sola fa il 45% dell’export. L’Azerbaigian ci vende il 57% del suo petrolio e il 20% del suo gas. Dal punto di vista di Baku, siamo i primi compratori di entrambe le sue specialità della casa.