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Piano Trump: Grand strategy o mossa tattica?

Piano Trump: Grand strategy o mossa tattica?

Politica estera

10/10/2025

da Remocontro

Piero Orteca

Il Gabinetto di guerra e il governo israeliano hanno dato via libera all’accordo per Gaza, predisposto da Trump. Adesso può partire la prima fase, con il cessate il fuoco, la liberazione degli ostaggi e la scarcerazione di centinaia e centinaia di detenuti palestinesi. Tattica o strategia? Una domanda vecchia quanto le guerre e le (cattive) politiche che le generano. per chiarire le possibilità di riuscita del piano di pace elaborato per cercare di risolvere, finalmente, la sanguinosa crisi.

Prima della pace vengono gli interessi

Parliamoci chiaro. Non è che dopo quasi 70 mila morti (a questa macabra contabilità, mancano i dispersi sotto le macerie e quelli ‘indotti’ da effetti collaterali) tutti gli attori coinvolti in codesta terrificante tragedia siano improvvisamente rinsaviti. No. Diciamo che c’è stata una purissima e fortunata convergenza di interessi specifici. Insomma, per capirci e per dirla brutalmente, ma con sincerità, l’etica, la morale, le buone intenzioni mettetele da parte. Tutti hanno dovuto fare uno sforzo, rinunciando a qualche cosa (per ora), pur di incassare un futuro dividendo, politico, diplomatico e, naturalmente, economico. Perché solo gli stupidi non hanno ancora capito che la guerra è sempre e comunque un ‘affare’ in perdita. Qualsiasi guerra. Però, proprio la natura abbastanza forzata dell’accordo, che si ‘doveva fare’, lo rende ambiguo, quasi fumoso su diversi punti. Che nel piano sono trattati all’ingrosso, non vengono chiariti né negli obiettivi finali e manco nei protocolli di applicazione. Insomma, l’esigenza di velocizzare le firme, ha indotto i negoziatori a nascondere la polvere sotto i tappeti. Sperando che nessuno se ne accorgesse.

Perché (per ora) conviene a tutti

Dunque, facciamo quattro conti, partendo da una riflessione obbligata: per come è formulato, l’accordo, in questa fase, equivale solo a un ‘cessate il fuoco’. Bisognerà discuterlo ancora e implementarlo perché diventi definitivo. Sempreché, nel frattempo, qualche manina contro-interessata non lo abbia violato. D’altro canto, Netanyahu aveva bisogno di sparigliare in politica interna, dove è tenuto sotto scacco dagli ultra-ortodossi e dai due famigerati ministri (Ben-Gvir e Smotrich) nazional-sionisti, che in quanto a fanatismo sembrano assomigliare a degli ayatollah ebraici. Sotto pressione per una guerra interminabile, accusato da mezzo Israele di fregarsene degli ostaggi, inseguito da mandati di comparizione e processi per corruzione, ‘Bibi’ aveva bisogno di recuperare ’audience’, specie in vista delle elezioni dell’anno prossimo. Certo, i ‘ludi cartacei’ per ora fanno perdere il sonno anche a Trump, che ha come chiodo fisso le prossime elezioni di Medio termine, nel 2026. Se perde una delle Camere del Congresso è fritto, diventerà un Presidente dimezzato e per far passare le leggi di spesa dovrà girare col cappello in mano. Per questo, un fragoroso successo in politica estera, come la pace a Gaza, potrebbe farlo risalire nei sondaggi, aiutandolo a spingere il Partito repubblicano a confermare la sua maggioranza. Egitto, Qatar, Turchia e gli altri mediatori sono tutti schierati per una pacificazione della regione, che naturalmente potrebbe beneficiare di un rilancio degli investimenti americani e occidentali in generale. Un grande ruolo-ombra lo ha avuto la diplomazia dell’Arabia Saudita, forse il Paese economicamente più esposto. Un Medio Oriente stabile, significa anche un Golfo Persico meno propenso a incendiarsi e un Iran più facile da controllare. Una situazione ideale per Riad e per il suo ambizioso piano di sviluppo ‘Saudi Vision 2030’.

L’accelerata dopo Doha

È stato il fallito blitz aereo israeliano di Doha, in Qatar, a convincere Donald Trump che bisognava accelerare i contatti per le trattative di pace. La reazione dei Paesi arabi, a quell’azione di Netanyahu, infatti, era stata furibonda e aveva portato a una riunione urgente che metteva indirettamente sotto accusa anche Washington. In sostanza, Trump era accusato di lasciare a Netanyahu la libertà di fare tutto ciò che vuole. A questo punto, pressato anche dai suoi consiglieri e dagli interventi di Marco Rubio e Pete Hegseth, il Presidente ha ‘precettato’ Bibi. Gli Usa cominciavano a temere di perdere la fiducia degli alleati (con l’Arabia Saudita in testa) e di veder entrare pesantemente in gioco Cina e Russia. Così Steve Witkoff e il genero di Trump, Jared Kushner, hanno affondato il colpo, recandosi in Egitto per incontrare lo Stato maggiore di Hamas e gli inviati di Israele: il vicedirettore del Mossad, il coordinatore per gli ostaggi e le persone scomparse Gal Hirsch e il consigliere per la Politica estera del Primo ministro, Ophir Falk. Tutti supervisionati a distanza dal ministro israeliano per gli Affari strategici, Ron Dermer, a capo del team incaricato delle negoziazioni per la liberazione degli ostaggi. È chiaro che il tentativo di assassinare i vertici di Hamas a Doha, ha convinto questi ultimi a trovare in tempi brevi una soluzione che comportasse anche un salvacondotto personale. Che è stato poi previsto dal piano.

La chiave di tutto? Liberare Barghouti

In pratica, a parte la cessazione quasi immediata dei bombardamenti, l’intesa mira ad allontanare Hamas dal potere a Gaza. Operazione non semplice, perché il gruppo è profondamente radicato nel territorio, dove ha vinto le elezioni e ha abilmente portato avanti una politica di sostegno ai servizi sociali. Certo, niente di paragonabile all’Occidente, ma comunque meglio di quanto abbia mai fatto l’ANP, per esempio, in Cisgiordania. E qui veniamo a quella che, a nostro giudizio, potrebbe essere la mossa decisiva per dare un senso in prospettiva futura a tutta la trattativa di pace. E cioè, la richiesta di liberare Marwan Barghouti, il «Mandela palestinese». L’unico personaggio, veramente carismatico, in grado di unire tutte le fazioni arabe, dalla Striscia di Gaza alla Cisgiordania, facendo superare le ataviche inimicizie tra i gruppi legati ad Hamas e quelli che fanno riferimento all’Autorità Nazionale Palestinese. Ma, secondo Haaretz, il governo israeliano da questo orecchio non ci sente proprio e non libererà Barghouti, in carcere da quasi vent’anni, con diversi ergastoli da scontare, dopo la Seconda intifada. «Un alto funzionario di Hamas – scrive Haaretz – ha dichiarato all’emittente qatariota Al Araby Al Jadeed che, dal punto di vista di Hamas, il rilascio dei prigionieri palestinesi non è la questione chiave dei negoziati. Allo stesso tempo, ha chiarito però che Hamas adotterà una ‘posizione dura’ riguardo al rilascio dell’alto funzionario di Fatah Marwan Barghouti e del capo del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, Ahmad Sa’adat. Barghouti, a nostro giudizio, sarebbe l’unica figura veramente capace di fare della Palestina uno Stato. Forse è per questo che Netanyahu lo vuol vedere marcire in galera.

Come potrebbe finire secondo Stratfor

Stratfor, uno dei think tank più prestigiosi di geopolitica, ha elaborato un modello interpretativo del piano di pace di Trump per Gaza, pronosticando severe difficoltà, che potrebbero far ricadere la Striscia in una «guerra a bassa intensità». In sostanza, dicono gli esperti, nel lungo periodo, a seconda di come andranno le elezioni israeliane del 2026, il conflitto potrebbe riprendere su larga scala. Nel frattempo, la prima fase dovrebbe scorrere relativamente tranquilla, mentre la tensione potrebbe rialzarsi all’atto di definire i passaggi della seconda fase. L’opinione di Stratfor è che il rischio di una ripresa dei combattimenti rimanga elevato. «Mentre i negoziati si spostano verso i colloqui sul futuro di Gaza – scrivono a Stratfor – lo slancio si arresterà e Netanyahu probabilmente irrigidirà la sua posizione per compiacere gli alleati di estrema destra, il che probabilmente darà luogo a un conflitto a bassa intensità, mantenendo sul tavolo la possibilità di un ritorno a una guerra più ampia». Oltre a queste osservazioni, gli analisti avanzano un altro sospetto: che Israele non rispetti gli impegni sottoscritti, invocando clausole di sopravvenuta ‘sicurezza nazionale’. «Nonostante la firma del 27 novembre di un accordo di cessate il fuoco con Hezbollah, che prevede il ritiro delle IDF da tutti i territori libanesi dopo 60 giorni, in attesa del ritiro di Hezbollah a nord del fiume Litani – sostengono a Stratfor – Israele non ha rispettato la sua parte dell’accordo, mantenendo almeno cinque avamposti nel Libano meridionale nonostante Hezbollah si fosse ritirato a nord dell’area designata. Un modello simile è possibile a Gaza. Israele probabilmente vincola il ritiro delle truppe e il flusso di aiuti al disarmo e alla rimozione di Hamas dal potere.

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