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Quando finisce la guerra non inizia la pace, ma il silenzio

Quando finisce la guerra non inizia la pace, ma il silenzio

Politica estera

15/10/2025

da Il Manifesto

Lina Ghassan Abu Zayed

Medio Oriente. Il racconto da Al-Mawasi. «Non è una vittoria, è un risveglio doloroso. Apriamo gli occhi sulla portata della perdita e reimpariamo a vivere senza ciò per cui un tempo vivevamo»

Quando le bombe smettono di cadere, il mondo presume che la guerra sia finita e la chiama pace. Ma a Gaza il silenzio che segue il bombardamento non è pace; è l’inizio di un confronto con il vero dolore. Un cessate il fuoco non significa la fine, significa semplicemente che il rumore si è placato, permettendo alla voce del dolore di farsi sentire.
Nel momento in cui viene dichiarata la calma, la memoria inizia a parlare. Il padre che ha perso suo figlio si sveglia ogni mattina con la sua immagine. La donna che ha detto addio al marito martire impara a parlare all’assenza stessa. Il bambino sopravvissuto porta negli occhi il ricordo di una casa ridotta in cenere.

LA FINE della guerra a Gaza non è una vittoria, è un risveglio doloroso. Apriamo gli occhi sulla portata della perdita e reimpariamo a vivere senza ciò per cui un tempo vivevamo. Le case distrutte non si ricostruiscono facilmente nel cuore e i volti scomparsi non possono essere sostituiti dal silenzio o dalle promesse di ricostruzione.

Questa fragile calma che aleggia sulle rovine è lo spazio in cui gli abitanti di Gaza si confrontano con se stessi, scoprendo che la sopravvivenza non è conforto, ma una nuova responsabilità. Vivere dopo tutto questo significa portare il dolore di coloro che non ce l’hanno fatta.

Così, quando il fuoco si spegne, non inizia la pace, ma le parole. Parole di cuori afflitti, ricordi pesanti e persone che cercano la loro strada in una città sfinita dalla perdita. A Gaza, la fine della guerra non è la fine; è l’inizio di un altro capitolo di sofferenza silenziosa, non meno dolorosa dei bombardamenti.

La ricostruzione non inizia con le pietre, ma con i cuori. Le case possono essere ricostruite, ma chi ricostruisce gli esseri umani che vi abitavano? Come può una madre, che trema ancora al rumore del vento perché le ricorda le esplosioni, sentirsi di nuovo al sicuro? A Gaza, le persone riparano non solo i muri, ma anche le anime frantumate dalla paura incessante.

I bambini, tuttavia, sono una storia che non finisce mai. Quelli che hanno imparato a contare al suono dei razzi invece che con i numeri sui loro quaderni, e che hanno capito l’assenza prima di poter capire il futuro. Ogni notte, un genitore si siede accanto a loro, promettendo che la vita tornerà a sorridere, ma i loro occhi rivelano ciò che non può essere detto: la paura che i loro figli crescano credendo che la guerra sia normale.

Al mattino, dopo la guerra, il caffè non ha più il suo solito aroma; l’aria si mescola con la polvere e la cenere. La gente cammina lentamente, con il pane in mano e il peso dei ricordi nel cuore. Si fermano davanti alle rovine delle loro case, toccando le pietre come se fossero i volti dei loro cari, raccogliendo foto dalle macerie come se raccogliessero i frammenti dei propri cuori.

E la sera il silenzio non è tranquillo, ma carico del clamore nascosto delle domande e del dolore. Ogni finestra chiusa sussurra una storia, ogni strada in rovina racchiude l’eco di passi che non torneranno mai più. In questo silenzio, le anime parlano più di quanto le persone potrebbero mai fare.

«La guerra è finita», dicevano. Ma nei cuori non è mai finita. Dopo che il mondo era piombato nel silenzio, la voce del dolore si levò dapprima sommessa, poi chiara, come se provenisse dalle profondità. Una madre siede sulla soglia di una casa ridotta in macerie, fissando la strada da cui suo figlio tornava ogni sera. Un tempo riconosceva il suono dei suoi passi prima ancora di vederlo, ma ora ogni passo che sente risveglia in lei la falsa speranza che sia tornato. Stringe a sé i suoi piccoli vestiti trovati tra le macerie, premendoli sul petto come se cercasse di recuperare il calore della vita dalle ceneri. Il mondo è silenzioso, ma dentro di lei infuria una guerra che non cesserà mai, una guerra tra la memoria e l’oblio, tra l’amore e la perdita.

In un’altra casa, una ragazza è seduta accanto a una porta che non è stata aperta dalla sua partenza. La sua ultima promessa era stata quella di aspettarlo dopo la guerra, ma la guerra è finita e tutto è tornato come prima, tranne lui. Ogni sera parla alla sua fotografia, chiedendogli com’è andata la sua giornata, raccontandogli della città che sembra strana senza la sua voce. Impara che l’assenza non guarisce, e che la solitudine non sta nel vuoto, ma nella presenza di una persona cara solo nei ricordi. Non lo ha perso una volta quando è stato martirizzato, ma lo perde ogni giorno quando si sveglia e non lo trova.

IL BAMBINO che è sopravvissuto da solo ora porta nei suoi occhi un’età superiore alla sua. La gente gli chiede il suo nome, ma lui rimane in silenzio, come se i nomi non avessero più alcun significato dopo che tutte le voci che lo chiamavano sono svanite. Cammina per le strade in rovina, alla ricerca di un volto familiare, di una mano che stringa la sua, di un abbraccio che gli restituisca un senso di sicurezza. A volte gioca tra le macerie, ma ogni risata porta con sé una scheggia di dolore. Piange raramente, forse perché le lacrime non bastano più per ciò che prova dentro.

Sì, la guerra è finita. Ma non ha lasciato i loro cuori. Vive ancora lì, nei dettagli di ogni giorno, negli sguardi, nel lungo silenzio prima di addormentarsi. A Gaza, la guerra non finisce con un cessate il fuoco; rimane dietro ogni sorriso spezzato, ogni cuore che cerca di reimparare a vivere dopo aver perso la vita stessa.

Ricordo la prima tregua annunciata nel gennaio 2025. La gente scese in strada per festeggiare, applaudendo e alzando la voce con gioia. Io, invece, piansi. Piansi con un dolore diverso dalle lacrime di sollievo, ma lacrime di oppressione.

Non sentivo che la guerra fosse finita; sentivo che ricominciava dentro di me. Vedevo negli occhi delle persone una speranza che non potevo raggiungere, ricordando la mia vecchia casa e la famiglia cancellata dall’esistenza, ricordando tutto ciò che si era fermato nella mia vita come se il tempo stesso si fosse congelato in quel primo momento di perdita. Mentre le voci si alzavano in segno di gioia, io sentivo solo il pesante silenzio che aleggiava tra le rovine del mio mondo interiore. Quel silenzio non può essere descritto, e non si può dire «La guerra è finita», perché sappiamo che non è ancora finita.

Eppure, continuo a credere che il cuore che ha pianto in profonda angoscia sia lo stesso cuore capace di risorgere dalle macerie. A Gaza, il dolore non finisce mai del tutto, ma impara a convivere con la vita. Portiamo con noi il nostro dolore non come un fardello, ma come prova che siamo ancora vivi.

Guardiamo il cielo ancora avvolto dal fumo, sussurrando dentro di noi: ricostruiremo. Non solo ciò che è stato distrutto intorno a noi, ma anche ciò che è stato spezzato dentro di noi. La vera pace, per noi, non è quando smettono di cadere le bombe, ma il giorno in cui potremo sorridere senza temere i ricordi.

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