05/10/2025
da Left
Il blocco navale è un atto di guerra. A Gaza, Israele lo impone dal 2009 violando norme umanitarie e principi della Carta Onu
Il blocco navale non è un’invenzione recente. La sua disciplina giuridica affonda le radici nella Dichiarazione di Londra del 1909, firmata dalle grandi potenze marittime per stabilire regole comuni sulla guerra in mare: dal contrabbando, al commercio con i neutrali, fino al blocco delle coste nemiche. Quella convenzione rappresentò un passo avanti nel diritto marittimo internazionale, offrendo principi che ancora oggi ritroviamo nel diritto dei conflitti armati, lo ius in bello.
Un precedente ancor più significativo, tuttora in vigore, è la Convenzione di Costantinopoli del 1888, che limita il blocco negli stretti internazionali: passaggi come Suez o il Bosforo non possono essere chiusi se collegano l’alto mare con acque circondate da Stati neutrali. Una regola che, in tempi di nuove tensioni geopolitiche, mantiene una bruciante attualità.
Ma cos’è, giuridicamente, un blocco navale? È un atto di guerra a tutti gli effetti. La stessa Dichiarazione di Londra lo equiparava a una dichiarazione di guerra. La sua liceità, oggi, si trova nell’articolo 42 della Carta Onu, che autorizza il Consiglio di sicurezza a disporre un blocco tra le misure coercitive in caso di minaccia alla pace. Per essere legittimo, tuttavia, deve rispettare tre condizioni: deve essere effettivo (utilizzando navi di superficie, e non sommergibili), non discriminatorio e preceduto da una dichiarazione ufficiale.
Non tutte le navi, però, possono essere fermate. Il diritto umanitario prevede esenzioni precise: l’art. 23 della IV Convenzione di Ginevra tutela le navi cariche di medicinali, mentre l’art. 70 del I Protocollo aggiuntivo consente azioni umanitarie per inviare cibo, vestiario e beni indispensabili alla sopravvivenza dei civili. È qui che entra in gioco la vicenda della Sumud Flottiglia.
Israele ha imposto il blocco navale a Gaza il 3 gennaio 2009, durante l’operazione Piombo Fuso contro Hamas, fissando la linea a 20 miglia nautiche dalla costa (poi ridotte). Un blocco rimasto in vigore anche dopo la fine delle ostilità, trasformandosi in un regime di guerra permanente, in contrasto con lo spirito della Dichiarazione di Londra.
Ma il nodo più controverso riguarda la sorte delle navi che tentano di violare un blocco. La Dichiarazione del 1909 non chiarisce cosa debba accadere agli equipaggi. Nel caso della Mavi Marmara, la nave abbordata nel 2010 con esiti tragici, Israele ha fatto riferimento non a una fonte di diritto internazionale, ma al manuale della Marina Usa, secondo cui il tentativo di violazione inizierebbe già all’uscita dal porto con l’intenzione manifesta di superare il blocco.
Su questa base Israele ha invocato un “diritto di inseguimento” che avrebbe legittimato l’abbordaggio delle navi della Flottiglia in alto mare. Ma qui sta la frattura giuridica: il cosiddetto diritto di inseguimento, previsto dall’art. 111 della Convenzione sul diritto del mare (Unclos), non si applica a navi civili in acque internazionali. Perciò l’azione israeliana resta inquadrabile solo come applicazione di un blocco navale (la cui legalità nel contesto del diritto umanitario è contestata) o come atto di autodifesa – un’argomentazione altrettanto controversa, data l’assenza di armi a bordo delle navi.
Ed è qui che si gioca la partita giudiziaria destinata ad animare i tribunali internazionali: avvocati e giudici dovranno districarsi tra il diritto di guerra, le norme umanitarie e i principi della Carta Onu.
Il punto cruciale, però, resta la confusione di fondo: tra guerra dichiarata e operazioni “di sicurezza”, tra blocco navale e diritto umanitario. Perché, in diritto internazionale, la guerra – esclusi i casi di autodifesa e le azioni autorizzate dal Consiglio di sicurezza – resta illegale.
Il problema giuridico, dunque, non è la Flottiglia. Il problema è la guerra.
In apertura uno scatto dalla manifestazione del 3 ottobre 2005 a Firenze, foto di Massimo Lensi