Giornalisti in guerra
«Te la sei andata a cercare». L’accusa mi si ritorce contro, ogni volta che una donna – giovane o meno, giornalista o volontaria – diventa un ostaggio, viene sequestrata oppure incarcerata.
«Perché non sei rimasta a casa a fare la calza» (Enzo Biagi) o «perché non sei andata in vacanza in Liguria» (Edward Luttwak). Peggio ancora, diventi un’oca giuliva o una vispa Teresa. Sono epiteti appositamente scelti perché non declinabili al maschile? Servono solo per le donne che osano invadere il campo di mestieri per soli maschi.
Per vent’anni sono stata svillaneggiata, colpevolizzata, insultata. Con l’avvento dei social poi era quasi inevitabile.
Alla fine, mi sono convinta: sì, me la sono andata a cercare, ma non solo in Iraq, ma anche in Algeria, Somalia, Afghanistan. In tutti i luoghi difficili, i paesi in guerra, ho ripercorso i miei viaggi ed è stata ovunque la condizione per fare il mio mestiere, per cercare le notizie, per verificarle, per fare informazione.
Del resto, era stata questa convinzione a farmi resistere nel mese di prigionia. Non mi sono mai abbandonata alla disperazione anche quando temevo di essere uccisa, la coerenza mi ha aiutata a lottare anche quando da pacifista ero diventata «un’arma di guerra».
La prima accusa rivolta ai giornalisti che cadono in disgrazia nelle zone di guerra è sempre quella di essere delle spie, dimostrare il contrario non è semplice, anche perché penso sia capitato a molti di noi di notare personaggi «strani» che si intrufolavano nei gruppi di giornalisti. Del resto, gli obiettivi sono comuni: cercare informazioni.
La distinzione è diventata più labile con l’istituzionalizzazione dei giornalisti embedded. Mi ricordo l’arrivo a Baghdad degli inviati al seguito dell’esercito americano: sui mezzi militari e in abiti color cachi era difficile distinguerli dai marine. E poi eravamo noi, che avevamo seguito la guerra a Baghdad, ad essere definiti unilateral.
Non si tratta solo di essere intruppati con i militari per seguirne le operazioni altrimenti inaccessibili, ma anche di poter diventare informatori dell’esercito. Mi riferisco a un caso concreto. Quando l’esercito Usa stava avvicinandosi a Baghdad, giornalisti embedded telefonavano a colleghi nella capitale irachena per informarsi sulla situazione in città. Certo ci saranno stati strumenti di intelligence molto più sofisticati a disposizione degli occupanti, ma questo era stato un caso di cui si era molto discusso.
Il nostro mestiere è però cambiato, è diventato sempre più rischioso, non solo perché le armi sono sempre più sofisticate e micidiali (uranio impoverito) ma proprio perché l’informazione è sempre più militarizzata. Lo abbiamo visto con la guerra in Ucraina dove se sollevi qualche interrogativo sei tacciato di essere pro-Putin o con quella di Gaza, dove sono stati i giornalisti palestinesi a pagare un prezzo senza precedenti per raccontare un genocidio.
L’accesso alla striscia era impossibile e sembra non inquietare nessuno se l’informazione riportata dai nostri media, con rare eccezioni, è solo quella dell’esercito israeliano, solo così si evita di essere tacciati di essere pro-Hamas.
Paradossalmente con tutti i mezzi a disposizione l’informazione si è impoverita ed è sempre più succube alla propaganda di guerra.
A chi per vent’anni mi ha accusato di essere un’assassina rispondo che a sparare a Nicola Calipari sono stati gli americani, non io. Ma non posso dimenticare la sensazione di qualcuno che ti muore addosso. È stata la persona che mi ha salvata due volte, dai rapitori e dagli americani, a morire. E io vivo da sopravvissuta.
Non ho mai potuto gioire per la mia liberazione, il 4 marzo è l’anniversario della morte di Nicola Calipari.
04/02/2025
da Il Manifesto