21/10/2025
da Il Manifesto
La guerra dopo. Solo domenica sganciate 153 tonnellate di bombe. Cento palestinesi uccisi in dieci giorni e pochi aiuti. E l’esercito, invece di ritirarsi, si allarga: Israele piazza barriere di cemento lungo la linea gialla. E si prende il 53% del territorio della Striscia
Centocinquantatré tonnellate di bombe israeliane sono state sganciate domenica su Gaza. A dirlo ieri di fronte alla Knesset è stato il primo ministro Benjamin Netanyahu in risposta ai mugugni dell’ultradestra che non si capacita della possibilità che l’offensiva possa finire davvero.
Finita non lo è: da quando il cessate il fuoco è entrato in vigore, dieci giorni fa, il fuoco israeliano ha ucciso quasi cento palestinesi e ne ha feriti quasi 250. Sono stati denunciati anche una decina di casi di detenzioni illegali. Solo domenica i caccia israeliani hanno colpito la Striscia almeno cento volte, da nord a sud.
LA «GIUSTIFICAZIONE» alle 153 tonnellate sarebbe stato un attacco di Hamas, nel sud della Striscia, nella zona di Rafah, in cui sono morti due soldati israeliani. Subito Tel Aviv ha rinviato sine die l’apertura del valico di Rafah e ha chiuso quello di Kerem Abu Salem (ha riaperto ieri). Nelle ore successive è emerso che il veicolo su cui i soldati viaggiavano è saltato su un ordigno, israeliano. Immediate le pressioni statunitensi per non far crollare la fragilissima tregua.
Israele sta applicando il modello libanese: dal novembre 2024, da quando è in vigore un accordo di cessate il fuoco con Hezbollah, Tel Aviv ne ha violato i termini migliaia di volte, con raid, spari di cecchini, evacuazioni di villaggi e soprattutto con il mancato ritiro dal sud del paese. A Gaza si tenta l’identica via, dopotutto funziona. L’offensiva non deve mai davvero terminare, deve sgocciolare sulla popolazione di Gaza così che non possa nemmeno immaginare un dopo-guerra, una ricostruzione, un ritorno a casa.
Per questo la «linea gialla» tracciata dall’accordo di Sharm el Sheikh consegna a Israele il 53% del territorio, chiunque la oltrepassi viene ammazzato dall’esercito occupante. Non solo: da domenica le ruspe hanno iniziato la costruzione dell’ennesimo muro, barriere di cemento alte 3,5 metri e verniciate di giallo lungo la yellow line. La demarcazione dovrebbe essere temporanea, ma il cemento dice altro. Dice altro anche il fatto che le truppe sono rientrate in zone da cui si erano ritirate il 12 ottobre: quartieri a Khan Younis e Rafah (città totalmente cancellate dalle mappe, non c’è più quasi nulla in piedi) a sud e quello di al-Sudaniya, a nord.
Intanto – mentre dai valichi entra ancora troppo poco, pochi camion e pochi beni, tra cui i macchinari per scavare tra le macerie – il bilancio di due anni e due settimane di genocidio continua a crescere, inesorabile: ha toccato ieri i 68.200 uccisi accertati, in attesa di recuperare migliaia, forse decine di migliaia, di cadaveri dalle macerie della Striscia. Alcuni non verranno mai individuati né riceveranno la dignità di una sepoltura: sono stati polverizzati dalle esplosioni.
IERI NETANYAHU ha citato, chissà quanto involontariamente, Yasser Arafat e uno dei suoi discorsi più noti (Nazioni unite, 1974): «Una delle nostre mani tiene un’arma, l’altra è tesa verso la pace», ha detto in parlamento dopo aver insistito nella difesa a oltranza della sua strategia di guerra senza fine. Gli israeliani di ogni tipo, ha detto, «sarebbe saliti in cielo nel fumo nucleare» se si fosse fermato. Poco prima il primo ministro aveva incontrato a porte chiuse la delegazione trumpiana, l’inviato Steve Witkoff e il cognato Jared Kushner.
I due sono sbarcati ieri a Tel Aviv per gettare le basi della cosiddetta fase 2 del piano, ovvero ritiro israeliano (quasi completo) da Gaza e disarmo di Hamas, presente ieri con una delegazione di alto livello al Cairo. In un’intervista alla Cbs, anche Kushner ha parlato di «bomba nucleare» ma per descrivere Gaza rasa al suolo, che ha visitato scortato dai soldati. Intanto alla Casa bianca Donald Trump minacciava Hamas di sradicamento se non dovesse «comportarsi bene».
IERI È PROSEGUITA la rispettiva consegne di salme tra il movimento islamico e le autorità israeliane: in serata la Croce rossa ha ricevuto il corpo di un ostaggio (non è stata al momento resa nota l’identità), mentre negli ospedali gazawi giungevano i cadaveri di altri palestinesi, catturati a Gaza e deceduti in carcere o esumati durante l’assedio.
Secondo il ministero della salute della Striscia, almeno 153 dei corpi mutilati riconsegnati questa settimana provengono da Sde Teiman, la base nel deserto del Naqab che l’associazione israeliana B’Tselem ha definito la punta dell’iceberg della rete di campi di tortura per palestinesi. Come riporta il Guardian, nelle sacche di plastica era presente un documento in ebraico che indicava Sde Teiman come luogo di detenzione. Significa un numero altissimo di decessi in cella, probabilmente per abusi e torture, e che potrebbe essere sottostimato.