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Record di senza dimora negli Usa: le ruspe spianano le tendopoli

Record di senza dimora negli Usa: le ruspe spianano le tendopoli

Politica estera

27/10/2025

da Avvenire

Alessandro Beltrami

Nell'America di Trump, che ha iniziato una battaglia legale sulle pelle dei poveri, vivono in strada quasi 780mila persone. Per loro lo sgombero ha significato la perdita di tutto: documenti, foto, la rete fragile di relazioni

A Washington la Guardia Nazionale presidia i parchi e gli spiazzi dove fino a pochi mesi fa sorgevano insediamenti di fortuna di senzatetto. L’ordine è arrivato direttamente da Donald Trump, per rendere la capitale «più sicura e bella di quanto non sia mai stata prima». Per le autorità locali, è un’operazione di facciata, le organizzazioni protestano. Per i residenti delle tende, lo sgombero ha significato la perdita di tutto: documenti, foto, la rete fragile di relazioni. Mai come ora la povertà abitativa è diventata un segno strutturale della società americana. Secondo i dati diffusi a inizio 2025 dall’U.S. Department of Housing and Urban Development, il numero delle persone senza dimora negli Stati Uniti ha raggiunto la quota record di 771.480. L’aumento rispetto all’anno precedente è del 18,1%, un’impennata che annulla tutti i progressi ottenuti nell’ultimo decennio. A crescere non sono solo le persone sole, ma anche le famiglie, i minori, gli anziani. La pandemia, con la fine dei sussidi e delle moratorie sugli affitti, ha spinto molti ai margini; l’inflazione e la crisi immobiliare hanno fatto il resto. Una malattia, un divorzio, un licenziamento, in particolare se sommati agli alti costi abitativi, sono sufficienti a far saltare i bilanci.

E così crescono le tent cities, le tendopoli spontanee divenute parte del paesaggio urbano, non più emergenza ma sistema: crescono lungo le strade di accesso alle metropoli, sotto i ponti ma anche sui marciapiedi delle downtown e in mezzo ai parchi pubblici. Skid Row a Los Angeles, Tenderloin a San Francisco, The Jungle a San Jose, Nickelsville a Seattle. In alcuni casi gli insediamenti sono gestiti da organizzazioni senza scopo di lucro in coordinamento con la municipalità, come Camp Hope a Las Cruces, nel New Mexico, o Dignity Village a Portland, dove shelter in legno hanno sostituito le tende. Ma la politica federale ha scelto la via repressiva. Con un ordine esecutivo emanato a settembre, Trump ha messo fine al modello Housing First, introdotto durante le amministrazioni Obama e Biden, che puntava a offrire un’abitazione stabile come condizione per ogni reinserimento. Al suo posto, la nuova dottrina prevede sgomberi sistematici, multe e arresti per chi dorme negli spazi pubblici. La svolta repressiva ha un’incidenza diretta sulla cura della salute mentale: secondo un rapporto di KFF, fonte indipendente per ricerche, sondaggi e notizie sulla politica sanitaria, la cancellazione dei fondi che offrivano casa senza condizioni come base per la cura puntando su ricoveri coatti e rimozione forzata dagli spazi pubblici rischia di aggravare disagio e diffidenza verso il sistema sanitario, compromettendo decenni di progressi nelle cure psichiatriche comunitarie.

Per capire però come sia stato possibile che le tendopoli dilagassero nelle città, in particolare delle West Coast, al di là delle cause sociali ed economiche, bisogna risalire al 2018 e alla sentenza “Martin vs Boise”, con la quale la Corte d’appello federale aveva fornito una tutela robusta contro le ordinanze anticampeggio sulla base dell’Ottavo Emendamento, che vieta le punizioni crudeli e inusuali. Il principio era che uno Stato o una municipalità non potesse imporre sanzioni penali contro individui senzatetto per il fatto di dormire all’aperto, su proprietà pubblica, qualora non fossero disponibili posti letto sufficienti nei rifugi per l’intera popolazione senzatetto della giurisdizione, creando di fatto un diritto a dormire sui marciapiedi fintanto che la mancanza di posti letto nei rifugi persisteva. Ma nel giugno 2024 la Corte Suprema con la sentenza “Grants Pass vs Johnson”, votata 6-3, ha ribaltato la “Martin vs Boyce”, riconoscendo ai governi locali il potere di punire la “vita all’aperto” anche in assenza di alternative abitative. Secondo infatti la più alta corte della magistratura federale, proibire il campeggio agli individui senzatetto non viola l’Ottavo Emendamento in quanto questo si concentrerebbe sulla punizione imposta dopo una condanna e non su cosa lo Stato possa criminalizzare in generale. Questa sentenza ha ridato potere alle città e agli Stati al di là del colore politico, come dimostrato dal governatore della California, il democratico Gavin Newsom, particolarmente attivo nel problema dell’housing, il quale ha rilasciato un’ordinanza che consente alle città di vietare il campeggio e l’ostruzione dei marciapiedi, richiedendo però loro di offrire un riparo e di fornire un preavviso prima dello sgombero.

A Washington invece non si è andati per il sottile. Nel quartiere di NoMa, le ruspe hanno demolito in una notte un intero accampamento, mentre i camion della polizia portavano via i resti delle tende. Alcune associazioni hanno denunciato l’amministrazione per violazione dei diritti umani, ricordando che gli sgomberi non riducono la povertà ma la spostano soltanto. Il costo umano di queste operazioni è altissimo ma, secondo un rapporto del National Homelessness Law Center, lo è anche quello economico: tra spese di polizia, tribunali e sanità, una persona sgomberata costa alle casse pubbliche fino a tre volte più di un programma di alloggio permanente. Dove applicati, i modelli alternativi si erano rivelati efficaci. A Houston e Salt Lake City i programmi di Housing First avevano ridotto i senzatetto di oltre il 50% in pochi anni. Mentre organizzazioni come la Poor People’s Campaign denunciano la criminalizzazione della povertà come una ferita morale al cuore della democrazia americana: «Non è un problema di disciplina ma di giustizia: finché l’abitare resta un privilegio, nessuna nazione potrà dirsi libera».

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