Nella bozza di rimodulazione del Recovery plan meno case e ospedali di comunità. Il governo dovrà convincere l’Europa che c’è ancora un servizio «di prossimità»
Modificare il Pnrr non è facile come pensa il ministro Fitto. Con un documento di 27 pagine, i presidenti regionali guidati dal friulano e leghista Massimiliano Fedriga hanno cercato di spiegarlo ieri al governo prima che lo faccia l’Ue, elencando tutte le incongruenze della bozza di rimodulazione del Recovery Plan. I governatori osservano che «le Regioni e le Province Autonome non sono state coinvolte» e chiedono un confronto «quanto mai opportuno e urgente» con l’esecutivo.
A leggere il documento, l’area sanitaria è una di quelle più problematiche. A causa dell’aumento non preventivato dell’inflazione, infatti, il governo intende cancellare dal Pnrr un parte sostanziale degli investimenti destinati a infrastrutture sanitarie esistenti e da realizzare entro il 2026. Dal Piano verrà stralciata la realizzazione di 414 (su 1350) Case di Comunità, che avrebbero dovuto sostituire gli inadeguati studi medici privati e alleggerire i pronto soccorso degli ospedali. Saranno tolti dal piano anche 96 dei 504 «ospedali di comunità» previsti, le strutture di degenza più piccole destinate a pazienti non gravi o cronici. Usciranno dal Pnrr anche 76 delle 600 Centrali operative territoriali da cui partirà la presa in carico dei pazienti e lo smistamento ai servizi più adeguati. Sulla carta non si tratta di una rinuncia, perché il governo intende spostare gli obiettivi su altre linee di investimento. Per esempio, sui fondi per l’edilizia sanitaria «ex articolo 20» (riferito alla legge n. 67 del 1988). Ma senza i vincoli e le scadenze fissate dall’Europa.
Tagliare questi servizi – segnalano ora le Regioni, sovrane in materia sanitaria – significa rinunciare a interventi urgenti e necessari. I fondi «ex articolo 20», scrivono, erano già stati destinati all’«ammodernamento delle strutture ospedaliere, spesso costruite oltre 50 anni fa, strutture che oggi presentano numerosi limiti dal punto di vista strutturale, antisismico, della sicurezza dei percorsi ospedalieri, del consumo in termini di spesa energetica, di qualità degli ambienti». Se andranno dirottati per riempire i buchi aperti dal Pnrr sorgerà un problema di copertura, come aveva già rilevato martedì il Servizio studi parlamentari. Per vecchie e nuove opere, inoltre, le Regioni hanno firmato contratti di sviluppo e elaborato piani operativi regionali vincolanti e ora «devono procedere nella prosecuzione delle opere, senza ritardi e senza incorrere nella mancanza di finanziamenti». Rivedere il programma in corsa rischia invece di generare una pioggia di ricorsi e sanzioni.
Sono rilievi di cui certamente terrà conto anche la Commissione europea per la quale, dopo il disastro pandemico, la riforma sanitaria assumeva un significato simbolico che il governo Meloni non sembra riconoscere. Sin dall’inizio del negoziato con l’Ue, il piano metteva l’accento sul rilancio dei servizi sociosanitari «di prossimità», espressione che ricorre ben 23 volte nel testo del Pnrr. Ma l’obiettivo si è via via sbiadito. Nella prima versione del piano redatta dal governo Conte bis, infatti, le Case di Comunità da realizzare erano 4800, una ogni 12 mila abitanti. Il governo Draghi le aveva ridotte a 1350, cioè una ogni 40 mila abitanti. Se adesso quelle «garantite» (ma ancora da realizzare) scenderanno a 936, ne rimarrà meno di una ogni 60 mila abitanti, un rapporto che difficilmente può definirsi «di prossimità». I commissari europei non potranno non rilevarlo.
Il progressivo tramonto del progetto di riforma della sanità territoriale divide gli stessi medici di base. Plaude la Fimmg, la potente associazione di categoria che ha sempre difeso lo status di liberi professionisti di medici e pediatri temendo che le Case di comunità li avrebbero obbligato a sottostare a vincoli più rigidi. C’è anche chi non la pensa così, e non si tratta solo della Cgil dei medici da sempre favorevole a portare i medici di base nel Servizio sanitario nazionale. Una lettera aperta firmata da un centinaio di medici di famiglia e assai circolata nelle loro chat e liste chiede al ministro della salute Orazio Schillaci di moltiplicare e non ridurre le Case di Comunità e di inserire i medici di famiglia nel servizio sanitario nazionale, con un contratto e una scuola di specializzazione al pari di tutti i colleghi ospedalieri. «Il nostro Ssn – scrivono – in questo momento ha bisogno ed aspetta da troppo tempo un Ministro coraggioso e lungimirante in grado di resistere a pressioni lobbistiche».
03/08/2023
da Il Manifesto