“Lavorate questa terra ma un giorno prenderemo tutto noi. Quindi in realtà è per noi che state lavorando. Ma se a voi sta bene così…”. Toglie e rimette la sicura al fucile, protetto dalla sua bandiera che sventola con dispetto nella Cisgiordania occupata, urlando frasi di scherno in un inglese sgangherato mentre sogghigna complice con il suo compagno più silenzioso.
Siamo al campo dalle 5.30 e loro due sono comparsi verso le 7.00 del mattino, li abbiamo visti scendere dalla colonia che sovrasta il villaggio palestinese di At-Tuwani con la loro jeep militare. Per un’ora circa dispensano commenti sessisti alle volontarie e ai volontari internazionali. Conoscono i loro nomi e la provenienza perché ogni giorno almeno uno di loro arriva, pretende i documenti, li fotografa accuratamente, registra i volti di chi è presente, tutto sotto la silenziosa protezione dei militari israeliani che appaiono ragazzini timorosi alle loro dipendenze.
Diverse associazioni operano a Tuwani e negli altri villaggi della zona di Masafer Yatta, a sud di Hebron. Operazione Colomba e Mediterranea sono le due Ong italiane che abbiamo incontrato. I volontari e le volontarie lavorano a ritmo costante, provando a documentare ogni presenza coloniale, ogni attacco, sopruso e ogni demolizione di case e strutture. Ma negli ultimi mesi eventi come questi avvengono tutti i giorni, più volte al giorno e allora si corre da un lato all’altro delle colline brulle e pietrose, senza sosta.
Le famiglie palestinesi ci accolgono sempre con un tè, con pazienza e gentilezza ci raccontano le loro terribili esperienze. Qualche abitazione ormai è completamente circondata dalle colonie e i nuovi outpost, ossia piccole basi coloniali appena impiantate che cresceranno nel giro di pochi mesi, nascono come funghi, ovunque ma non a caso. Guardandole attentamente si possono leggere le geometrie dell’accerchiamento. Cresceranno e diverranno una cosa sola, gigantesca colonia fornita dal governo israeliano e dalle donazioni private di elettricità, pannelli solari, automobili, telecamere, droni, torrette di controllo. Le case svettano bianche, alte e pulite e si gonfiano di strade private e strutture, mentre nei villaggi palestinesi non è consentito costruire, anzi le abitazioni e le baracche vengono buttate giù con le ruspe come se fossero di cartone, continuamente. Neanche una tenda possono aprire. I coloni controllori arrivano a smantellarla nel giro di pochi minuti.
Non ci sono sbarre visibili intorno ai villaggi eppure vivono come in una gigantesca prigione, sempre osservati: le torrette degli israeliani sono piene di telecamere che seguono costantemente ciò che avviene intorno e dentro le case palestinesi. Durante i raid più duri, i coloni a volto coperto distruggono tutto ciò che trovano, abbattono le mura delle abitazioni già povere e colpiscono con spranghe e coltelli uomini, donne e bambini. Mentre una ragazza accende il fuoco all’aperto tra le pietre di Um Darit, il capofamiglia ci dice che la presenza fissa degli internazionali rappresenta un deterrente per i coloni. E difatti accade che appena andiamo via ci richiamano per avvisarci che sono arrivati a girare intorno all’abitazione con fare minaccioso.
A Masafer Yatta si scrutano costantemente le strade dei coloni. Le hanno costruite appositamente per raggiungere i villaggi palestinesi nel minor tempo possibile. Scendono in un lampo con camionette ma anche piccole automobili colorate a due posti, veloci e compatte. “Eccoli”, si dicono a voce bassa i palestinesi. Non fanno nulla, semplicemente si preparano a ciò che potrebbe accadere. E potrebbe accadere di tutto. “Se arrivano quelli col volto coperto e le spranghe, lascia tutto e scappa” mi dicono, “con quelli non c’è da parlare, vengono per picchiare”. Il 13 ottobre 2023 Zakaria al-Adra tornava dalla moschea quando ha sentito donne e bambini urlare spaventati perché coloni armati erano entrati fin dentro il villaggio. Erano in due, uno dei quali con un fucile d’assalto militare, accompagnati da un soldato israeliano.
Un cellulare ha ripreso l’intera scena: il colono si avvicina a Zakaria, lo spinge con con la canna del fucile, poi fa un passo indietro, prende la mira e gli spara allo stomaco. Il proiettile era a frammentazione, (i cosiddetti proiettili dum-dum) e ha danneggiato numerosi organi interni. Quando lo incontriamo, dopo 9 mesi dall’aggressione, la moglie Shouq ci dice che ha subito 14 operazioni e che si sta riprendendo ma non potrà più lavorare nell’edilizia. Lei e il marito hanno solo 24 e 28 anni, quattro figli. Shouq parla un ottimo inglese e ci spiega che nonostante abbiano denunciato, nonostante tutti conoscano la sua identità, nonostante il video rappresenti una prova inequivocabile, il colono non è stato perseguito: è completamente libero.
Il primo giorno accompagniamo i palestinesi e i volontari che si occupano di un pezzo di terra a Tuwani. È tutto secco, c’è una fila di piante morte che, mi spiega Hafez, aspettavano di essere piantate. Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, però, Israele ha impedito per 8 mesi di accedere al terreno. Sono morte le piante e pure gli olivi. Ma non è tutto. In quegli 8 mesi i coloni sono entrati e hanno distrutto ogni cosa. I tubi dell’impianto idrico sono stati tagliati a pezzetti e ora riposano tutt’intorno a noi come serpenti senza coda: “Come si può fare qui senza acqua?” I cactus sono stati tagliati ma dai pezzi monchi crescono nuove braccia, così anche per gli olivi che hanno rigettato la fine, sputando fuori decine di nuovi rami direttamente dalle radici. “Sembra che lo facciano apposta” mi dice Rocco, un volontario italiano, “Sono come i palestinesi, non si arrendono e ricominciano da zero”. Come un lampo mi raggiunge il ricordo della mia ultima visita a Tuwani: era il 2014 ed era in corso su Gaza l’operazione militare israeliana “margine protettivo” che causò la morte di 2.251 palestinesi tra combattenti e civili e di 66 soldati e 5 civili israeliani. Sono passati esattamente 10 anni da allora e gli olivi erano piccoli come oggi.
“Serve a qualcosa allora parlarne?” mi scrive qualcuno dall’Italia. Quella dei palestinesi delle zone C della Cisgiordania è una resistenza costante. Ogni nuovo giorno nasce per opporsi all’esproprio e alla cacciata e la resistenza stessa rappresenta dunque l’unica forma e l’unico modo per garantire la propria esistenza e quella di tutta la famiglia.
La sera, appena arriviamo alla terra ci raggiunge un colono giovane, vestiti civili, fucile come tutti. Prende il telefono, chiama qualcuno e aspetta. Dopo poco scende un suo compagno, indossa una specie di divisa militare ma senza stemmi. I volontari lo chiamano “Top Gun” perché porta occhialoni neri e ha atteggiamenti da duro. “Questo è cattivo – mi dicono – ieri mi ha dato una spinta con il calcio del fucile. Ci avrà chiesto i documenti mille volte”. Arrivano da un’altra strada i militari, si accostano a lui e cominciano a seguirlo come guardie del corpo, parlandoci solo per dire che dobbiamo dargli i documenti, è la legge. Li chiede a tutti e li fotografa. Arriva anche da noi. Gli diciamo che siamo giornalisti accreditati e che non capiamo perché voglia i nostri documenti. Non parla, guarda il tesserino, lo restituisce e si tiene il passaporto. Mentre lo fotografa lo chiediamo ai soldati. “E quindi?” ci dicono. “Vi stiamo chiedendo se tutto questo è normale, voi siete l’esercito, lui è un colono”. Un’alzata di spalle è l’unica risposta che otteniamo. Finito tutto va via. I militari lo seguono poco dopo. Il giorno prima lo stesso giochetto aveva tenuto tutti quanti bloccati sotto il sole per due ore, non avevano neanche il permesso di bere.
Assistiamo al tramonto, dormiamo qualche ora accompagnati dal ragliare degli asini e scendiamo di nuovo all’alba. Comincia un altro giorno. Queste colline sono tripudio di colori, belle e nostalgiche, sembrano non finire mai. Questa volta il colono con l’amico silenzioso grida ai palestinesi che sono uomini posticci perché fanno lavorare le donne al loro posto, dice a una volontaria australiana che nel suo Paese i musulmani non li vogliono e allude a scelte private di tipo sessuale. Chiede ai volontari perché lo fanno: “Loro [i palestinesi] sono sporchi, sono sangue. Voi non vi rendete conto di ciò che state facendo, solo così si spiega perché siete qui”. Quando finalmente si stancano vanno via e noi poco dopo. Ma la giornata è appena cominciata. Corre la notizia che Zakaria, l’uomo a cui il colono ha sparato in ottobre con il proiettile a frammentazione, è stato arrestato. La polizia lo ha contattato e gli ha detto di presentarsi di persona per firmare alcuni documenti relativi alla denuncia che ha presentato. Una volta lì, però, lo hanno interrogato lungamente, accusandolo di aver lanciato una pietra contro il colono. “Gli hanno detto che sanno che qualcuno ha tirato una pietra – ci spiega Shouq – e che il video dimostra che lui era lì in quel momento, per cui potrebbe essere il colpevole”. Gli hanno chiesto una cauzione di 1.000 shekel (250,00 euro circa) per poter ritornare a casa.
Alle 9 ci sediamo per la colazione ma dobbiamo subito correre via: sono arrivate le ruspe. La demolizione delle case è un altro mostro titanico a cui opporre resistenza. Nonostante la Cisgiordania non sia Israele, nonostante sia territorio palestinese occupato, il governo e i militari decidono quali case distruggere. Case a più piani, baracche, scuole, tende, ogni cosa. A Umm al Khair, Eidu ci accompagna sulle macerie della sua abitazione. La figlia ancora viene a stendere al sole gli abiti bagnati. In un giorno solo, il 26 giugno, 11 case sono state abbattute su ordine dell’amministrazione civile dell’occupazione, lasciando circa 50 persone, la maggior parte bambini, senza un riparo.
Rincontriamo Eidu il giorno seguente, quando un incalzante passaparola avvisa che ruspe e escavatori sono alle porte di Tuwani. I palestinesi credono che entreranno per buttar giù il dormitorio a due stanze dove abbiamo anche noi riposato. Invece cambiano direzione e si dirigono verso un villaggio vicino. Li seguiamo con la macchina: tra le strade chiuse con i blocchi di cemento e quelle per cui ai palestinesi è impedito l’accesso, non resta che scegliere i campi. Tra le pietre rimbalziamo senza controllo mentre seguiamo da lontano la colonna di camionette militari e mezzi di demolizione. Se necessario, gli israeliani si aprono la via con le ruspe.
Quando arriviamo sul posto si è già adunata una piccola folla di persone: la famiglia dei proprietari della casa da demolire, i palestinesi del villaggio e di quelli vicini. La polizia di frontiera ci permette di riprendere la scena ma dobbiamo rimanere oltre lo steccato con il filo spinato. Non mancano momenti di tensione, qualcuno urla, i militari spingono, arriva una squadra che a volto coperto entra nella casa per preparare la demolizione. Gli enormi mezzi gialli scalpitano, è tutto pronto. Il capo dell’operazione, un soldato in borghese, si allontana per qualche minuto e quando torna dà l’ordine di abbandonare la demolizione e di andar via. L’urlo di vittoria che si alza spontaneo tra i palestinesi presenti deve indispettire i militari perché uno di loro si volta e rotea l’indice più volte, come per dare appuntamento a più tardi. Le persone non si fidano e quando il corteo di mezzi si rimette in cammino, lo seguono tra le colline.
Non va via, infatti, ma arriva a una piccola tenda con i tubolari in alluminio e le ruspe la buttano giù. È dello stesso proprietario dell’abitazione risparmiata, che ora prega Allah come ringraziamento. Quando domandiamo il motivo del cambio di programma ci accorgiamo che la versione più diffusa pare essere proprio quella dell’intervento divino. Non se lo spiegano in realtà. Forse non c’erano le condizioni ambientali opportune, forse troppe persone presenti, forse troppo numerosi gli internazionali, fatto sta che l’ok definitivo non è arrivato. Ma la casa, come tantissime altre, rimane sotto ordine di demolizione.
Il corteo dei mezzi non è finita però. Dopo aver distrutto la tenda si dirigono verso Tuwani, su in alto, superata la scuola. Lì non c’è nulla da fare. Mezz’ora e una casa va giù. Appianano le macerie per far strada alle ruspe che finalmente vanno davvero via. Per oggi sembra finita. Sono solo le 12 in realtà e alle 18 si ritorna sul campo dove senz’altro scenderanno i coloni. Per quell’ora noi saremo andati via ma la vita qui continuerà uguale nell’assedio e nell’umiliazione. Chissà se tra dieci anni gli olivi saranno ancora piccoli a Tuwani. Pagine Esteri
29/07/2024
da Pagine Esteri