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Ricostruzione e marines, la dote di al-Sharaa a Trump

Ricostruzione e marines, la dote di al-Sharaa a Trump

Politica estera

11/11/2025

da Il manifesto

Chiara Cruciati

Il buon terrorista. Il presidente qaedista accolto alla Casa bianca per scrivere il futuro, cupo, della Siria

Il viaggio che ha condotto alla Casa bianca Abu Mohammed al-Jolani, al secolo Ahmed al-Sharaa, è stato fulmineo e costellato di record personali. L’ex leader di al Qaeda in Siria, l’uomo su cui pesava una taglia da dieci milioni di dollari spiccata dal Pentagono, non aveva fatto in tempo a insediarsi a Damasco – dopo la caduta del presidente Bashar Assad, l’8 dicembre 2024 – che le cancellerie occidentali già lo riconoscevano legittimo leader di uno dei più importanti paesi dell’Asia occidentale.

DA LÌ È STATO un crescendo, per nulla intaccato da elezioni farsa, pogrom e sparizioni forzate. Il 7 maggio scorso è stato accolto all’Eliseo dal presidente francese Macron. Una settimana dopo a Riyadh ha stretto la mano a Donald Trump ricevendone in cambio una pioggia di complimenti («un tipo attraente…dal passato forte») e un allentamento delle sanzioni che strangolano la Siria da decenni. A settembre ha tenuto il suo discorso all’Assemblea generale Onu – doppio record: primo qaedista e primo leader siriano dal 1967 – e ha dialogato in pubblico con David Petraeus, l’uomo che da capo della Cia lo aveva sbattuto a Camp Bucca, prigione di massima sicurezza Usa in Iraq.

Una marcia vittoriosa che ieri ha toccato il suo distopico apice su un campo da basket a Washington: al-Sharaa ha messo in mostra le sue abilità con un gruppo di funzionari militari statunitensi. Non funzionari qualsiasi: uno era Brad Cooper, a capo del Comando centrale Usa, e uno il generale Kevin Lambert, comandante della coalizione anti-Isis in Iraq. Al-Sharaa ha fatto un paio di canestri.

Qualche ora dopo era davanti a Trump nello Studio ovale. Un incontro che alla vigilia era dato per altamente simbolico, e così è stato: il presidente siriano ha avuto la sua photo opportunity e la stretta di mano del tycoon, ma non una conferenza stampa congiunta. La ragione va probabilmente cercata altrove, a Tel Aviv, contraria a elevare Damasco a partner forte della rete Usa nella regione. Il suo podio al-Sharaa lo ha avuto anche dopo il bilaterale, fuori dalla Casa bianca, dove è stato accolto da una piccola folla di siriani della diaspora in festa.

L’incontro è durato almeno un’ora e mezzo, tanti i temi sul tavolo. A partire dall’adesione di Damasco alla coalizione anti-Isis accanto a un’ottantina di paesi, un atto molto più che simbolico: serve a Washington per ribadire l’espulsione di Mosca, che da protettrice del precedente regime si era assicurata la presenza militare sulla costa mediterranea. A ciò si aggiunge la prossima presenza militare statunitense in una base aerea siriana alle porte della capitale, area da demilitarizzare per poter lanciare una sorta di patto di non aggressione con Israele. In attesa di dettagli, tale presenza significa cooperazione militare tra forze siriane e Usa: il migliaio di marines oggi nel paese hanno finora sostenuto le Syrian Democratic Forces, le unità di autodifesa del nord-est siriano a guida araba e curda, che Washington preme perché siano integrate nel nuovo esercito nazionale.

MA SOPRATTUTTO sul tavolo c’erano le sanzioni e la totale rimozione del Caesar Act, l’atto Usa che si rinnova in automatico ogni sei mesi e la cui fine richiede l’approvazione del Congresso. In attesa del via libera – non del tutto scontato anche per l’opposizione dietro le quinte di Israele (una Siria debole, per Tel Aviv, è sempre meglio di una Siria amica) – il Dipartimento del Tesoro ha annunciato ieri la sospensione parziale del Caesar Act per 180 giorni. Restano fuori le transazioni con Russia e Iran.

UNA NOTIZIA di per sé non necessariamente negativa: come spesso accade anche ad altre latitudini, le sanzioni sono state pagate quasi esclusivamente dal popolo siriano, gettato in una crisi economica devastante e prigioniero della mancata ricostruzione dopo un decennio e mezzo di guerra. L’attuale allentamento delle restrizioni non ha avuto impatto sulle persone, scriveva ieri Osama Bin Javaid su al Jazeera: «Non sono ancora disponibili transazioni bancarie Swift: se si desidera usare la carta di credito o effettuare un bonifico, non è possibile. È estremamente difficile per chiunque investire nel paese».

In cambio Trump vuole i suoi trofei: da una parte la fetta più grossa della ricostruzione e dall’altra l’ingresso della Siria negli Accordi di Abramo, la normalizzazione dei rapporti con Israele insieme a Emirati, Bahrain, Marocco, Sudan e Kazakistan. Insieme a Riyadh, Damasco è il pesce grosso, non dal punto di vista economico ma politico. Tanto più alla luce delle mire di Tel Aviv che da un anno bombarda e occupa un pezzo di Siria meridionale e continua a spingersi sempre di più verso la capitale. Al-Sharaa ha optato per la via che reputa l’unica in grado di garantirlo al potere: pugno di ferro in casa contro qualsiasi movimento rivale (dai Fratelli musulmani all’autonomia curda ispirata al Pkk), zero nemici fuori.

Magari con un patto di non aggressione, Tel Aviv permettendo.

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