Nel carcere di Evin I tempi sono quelli della trattativa, della diplomazia, della politica, troppo lunghi per chi sta rinchiusa in una cella
Il tempo. Un’ossessione. Il tempo che passa o che si ferma. «Fate in fretta», è stata la supplica di Cecilia Sala. Ma purtroppo i tempi sono quelli della trattativa, della diplomazia, della politica, troppo lunghi per chi sta rinchiusa in una cella. Sempre illuminata da un neon, che non ti permette di distinguere il giorno dalla notte. Sempre luce o sempre buio, è comunque una tortura.
Una cella di isolamento che non ti permette nemmeno di evadere inseguendo un suono che percepisci venire dall’esterno, gli unici rumori sono quelli del passo degli aguzzini.
L’isolamento è una tortura, vivere ore, giorni in solitudine senza nemmeno il conforto della tua voce, senza la complicità di un’altra o di altre donne, ti consuma dentro. La solitudine esalta gli incubi, logora la speranza, fa scemare il futuro.
Essere prigioniera lontano da casa, in un paese con un’altra cultura, anche se pensi di conoscerla, ogni messaggio diventa difficile da decifrare.
I trattamenti nel famigerato carcere di Evin ci sono stati raccontati dalle prigioniere iraniane, l’accanimento nei loro confronti è sicuramente accentuato dall’appartenenza religiosa e/o etnica, le curde che hanno coniato lo slogan «Donna, vita, libertà» subiscono le vessazioni peggiori.
Cecilia Sala è un ostaggio e questo dovrebbe garantirla perlomeno da torture fisiche, ma questa non può essere una consolazione, anche la tortura psicologica è devastante.
Come resistere? Solo facendo ricorso alle proprie forze e convinzioni, non esistono ricette magiche valide per tutti gli ostaggi. Di fronte ai quali la pressione dell’opinione pubblica può contare. Spesso, come in questo caso, si chiede riservatezza, ma cosa si intende per riserbo quando a diventare arma del ricatto è una giornalista il cui compito è proprio quello di informare? Il silenzio stampa non è mai servito.
Informare è sempre più rischioso e difficile da luoghi di guerra o paesi «potenzialmente» nemici, come in questo caso, l’Iran. È una sventura diventare «merce di scambio» in un gioco, dove anche le istituzioni italiane come la magistratura si confrontano con le logiche di potere – che il governo subisce – che contrappongono gli Stati uniti all’Iran. La soluzione è complicata. Persino la salvaguardia dei diritti umani è condizionata da codici diversi. Ma trattare resta necessario.
Non arrendersi al giornalismo embedded è sempre più rischioso, ma non si può rinunciare a raccontare quello che sta realmente succedendo a Gaza – dove nel 2024 sono stati uccisi 200 giornalisti -, in Kurdistan, in Siria o in Iran. E non si può assistere indifferenti alla scarsa considerazione di cui godono i giornalisti palestinesi, gli unici ad aprire un varco nell’omertà imposta da Israele.
Secondo consuetudine, anche contro Cecilia Sala si sono levate le accuse di «se l’è andata a cercare», non solo sui social, ma anche da parte di giornalisti che non si sono mai sporcati le scarpe per fare informazione. Ancora una volta la misoginia acceca chi dovrebbe garantire il dovere di informare perché considerano il giornalismo un mestiere per maschi.
04/01/2025
da Il Manifesto