PALESTINA. Dal 7 ottobre omicidi, pestaggi, incendi ai campi, furto d’acqua: in centinaia costretti a fuggire, a favore degli insediamenti. In Cisgiordania è in corso un trasferimento forzato di massa, armato e sostenuto dal governo israeliano
Il villaggio di Khirbet Zanutah dista qualche centinaio di metri dalla Road 60. Ci si arriva da una strada sterrata, terra rossa e polvere sollevata dai furgoncini che passano correndo. Sui furgoncini c’è la vita della comunità: tende, tappeti, mobili, vestiti. Anche le pecore.
Sabato scorso i 150 abitanti di Zanutah si sono riuniti nella sede del consiglio municipale, un container d’alluminio. Si sono riuniti e hanno deciso che non ce la facevano più. Non ce la facevano più a sopportare gli attacchi notturni dei coloni dell’insediamento di Meitarim. Domenica hanno cominciato a impacchettare il loro villaggio, quello su cui vivono da generazioni.
ZANUTAH esiste da secoli. Era la via di passaggio tra Hebron e Gaza, ci sono ancora i resti delle antiche case in pietra che oggi non possono essere più costruite: Israele vieta strutture permanenti in Area C, il 60% della Cisgiordania sotto controllo militare e amministrativo delle autorità israeliane.
Smontano le tende. Svitano l’alluminio che copriva le strutture di cemento. Riempiono i sacchi del cibo delle greggi. Svuotano con le taniche le cisterne d’acqua per non perderne nemmeno una goccia. Lavano le stoviglie. Caricano i furgoni. Alla spicciolata se ne stanno andando, una famiglia dopo l’altra.
Zanutah è una delle tredici comunità palestinesi che dal 7 ottobre, dall’attacco di Hamas su suolo israeliano, è stata costretta allo sgombero dall’inaudita e ormai incontrollabile violenza dei coloni.
Un totale di 838 persone al momento, ci dice Yehuda Shaul, tra i fondatori della ong israeliana di ex soldati Breaking the Silence e oggi membro di Ofek Center: «Nel corso dell’ultimo anno, prima del 7 ottobre, 110 chilometri quadrati di terre in Cisgiordania sono stati di fatto annessi dai coloni agli insediamenti esistenti. Si tratta del 3% dell’Area C della Cisgiordania. Dal 2011 parliamo del 10%».
Da gennaio 2022 a settembre 2023 ventotto comunità, per un totale di 1.105 palestinesi, secondo i dati dell’agenzia dell’Onu Ocha, sono state cacciate dalle loro terre: il più ingente trasferimento forzato dal 1972. Dal 7 ottobre altre 13 comunità, altre 838 persone.
SUCCEDE in due aree in particolare: nella Valle del Giordano e nelle colline a sud di Hebron. Entrambe zone di antica accoglienza: è qui che nel 1948 si rifugiarono le comunità beduine espulse dal Naqab dal nascente Stato di Israele.
Ed è qui che da anni vivono nella minaccia costante dell’ennesimo trasferimento forzato. La minaccia non è più futuro possibile, ma realtà presente, coperta dalla legittimazione che il governo di ultradestra al potere in Israele ha garantito al movimento dei coloni estremisti.
Che non solo non si ferma ma trova un acceleratore nell’operazione di Tel Aviv contro la Striscia. Gli occhi del mondo guardano a Gaza, massacrata da una pioggia di bombe senza precedenti. E l’attenzione cala sulla Cisgiordania: «Il timore delle organizzazioni per i diritti umani è che si usi l’attacco contro Gaza per nascondere le espulsioni in Cisgiordania. Accade già – ci spiega Lubna Shomali, coordinatrice dell’ong palestinese per i rifugiati Badil – E il timore è che, una volta finito con Gaza, Israele si concentri sulla Cisgiordania. Ha ottenuto il via libera di un pezzo di comunità internazionale, dei più potenti stati occidentali. Se può procedere impunito con un genocidio, può fare quel che vuole anche qui».
Lubna Shomali
Israele arma e protegge i coloni perché è tramite le loro azioni che crea l’atmosfera di terrore che spinge i palestinesi a fuggire
Amin al-Kadharat ha 38 anni. Mentre parla continua a toccarsi il cappello. È nato a Zanutah, come suo padre che di anni ne ha 80. Ha vissuto sempre qui: «L’insediamento di Meitarim è nato tre anni fa sulle nostre terre. Ci hanno sempre minacciato, ma dal 7 ottobre è cambiato tutto: ogni notte vengono nelle nostre case, ci picchiano. Distruggono le cisterne d’acqua e i sacchi di cibo per gli animali. Rompono i vetri delle auto. Arrivano armati, ci puntano i fucili contro».
Amin ha tre fratelli, due figlie e due figli. Li porterà via: «Me ne vado per i miei figli, ho paura che gli facciano del male. È il momento più difficile della mia vita. Entro due giorni questo posto sarà vuoto. Non riesco a immaginarmelo vuoto». Piange. «Non so se con le altre famiglie riusciremo a restare in contatto. Stavamo insieme ogni giorno, nei campi, al pascolo. E la sera ci riunivamo a bere il tè, a raccontarci storie».
AMIN si sposterà per il momento alla periferia di Ad-Dhahiriya, la cittadina più grande da queste parti. Altri andranno in terre beduine che sperano meno minacciate. Dall’altra parte della strada, resta un piccolo villaggio, appena trenta abitanti. Si chiama el-Nizan. Hanno deciso di andarsene anche loro: dopo Zanutah sarebbero il prossimo obiettivo.
Amin al-Kadharat
Non riesco a immaginarlo vuoto, questo villaggio. Stavamo insieme ogni giorno, nei campi. E la sera ci riunivamo a bere il tè, a raccontarci storie
Fuori dal municipio-container c’è un cartello: «Supporto umanitario per i palestinesi a rischio di trasferimento forzato in Area C». Sotto ci sono i loghi delle cooperazioni allo sviluppo di Italia, Spagna, Belgio, Francia, Lussemburgo, Svezia, Irlanda e Gran Bretagna. Mezza Europa, da queste parti non se ne vede nemmeno l’ombra. Qui dicono di aver contattato gli avvocati del villaggio, le rappresentanze diplomatiche ma nessuno li può aiutare.
«Molte delle comunità svuotate negli ultimi venti giorni erano vicine tra loro. Non possono difendersi da sole contro i coloni. Non sono solo protetti dall’esercito, sono l’esercito: con la chiamata in massa di riservisti, i coloni che prima aggredivano le comunità ora si presentano con addosso l’uniforme e un numero maggiore di armi», ci spiega Sophie Driscoll. Lavora per il West Bank Protection Consortium (Wbpc), programma umanitario europeo attivo in Area C tra le comunità più vulnerabili.
Piccoli insediamenti come Ein Rashash, Wadi al-Siq, al-Baqa, Ras al-Tin, che vivevano di pastorizia e agricoltura. Le loro case erano grandi tende di stoffa colorata o baracchine di alluminio, poche famiglie per comunità. Fuori dalle tende stazionano le cisterne dell’acqua, unico modo per goderne: Israele vieta di scavare pozzi, collegarsi alla rete idrica, costruire spazi comuni come le scuole, pena la demolizione. Sono ormai vuote, le cisterne.
LA SCORSA settimana sui parabrezza di decine di automobili parcheggiate nel villaggio di Deir Istiya, a Salfit, i coloni hanno lasciato volantini in arabo: «Volete una catastrofe come quella del 1948. Grazie a dio, una grande catastrofe si abbatterà sulle vostre teste. Avete un’ultima opportunità di scappare in Giordania. Dopo vi espelleremo con la forza dalla nostra sacra terra». La minaccia di «una seconda Nakba». Nel villaggio di Wadi al-Siq i coloni sono entrati nelle tende con un ultimatum: un’ora di tempo per andarsene. La gente è fuggita con addosso solo i vestiti.
A Susiya, a una manciata di chilometri da Zanutah, hanno fatto lo stesso: «Sono arrivati di notte, mascherati – ci dice Nasser Nawaj’ah, storico portavoce del villaggio – Ci hanno puntato i fucili alla testa e ci hanno dato 24 ore per andarcene». Susiya è ancora là, ma i coloni fanno paura.
Uccidono. L’ultima vittima sabato, un contadino di 40 anni, Bilal Muhammed Saleh. Raccoglieva olive nel villaggio di As-Sawiya, fuori Nablus. Gli hanno sparato al petto. «I contadini sono a rischio – spiega Driscoll – soprattutto nella stagione della raccolta delle olive. Ci sono diversi gruppi WhatsApp in cui i coloni si organizzano e coordinano gli attacchi. Operano in diversi modi: minacce, aggressioni, incendi ai campi, danneggiamento delle infrastrutture».
«Secondo Ocha, siamo passati dai tre attacchi al giorno dell’anno precedente agli attuali otto. Sono alimentati dal governo israeliano: il ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir va in giro ad armare migliaia di coloni – aggiunge Shomali – Israele li protegge, non li punisce perché è tramite le loro azioni che crea l’atmosfera di terrore che spinge i palestinesi a fuggire. L’obiettivo è lo stesso di sette decenni fa: liberare la terra e massimizzare la popolazione palestinese in spazi minimi».
SECONDO il Wbpc, in Area C si stimano 30mila palestinesi a rischio di trasferimento forzato, per 10mila quel rischio è immediato. «Alcune comunità si sono spostate nella città di Tubas, altre nella zona di Taibeh, a est di Ramallah. Altre vicino a comunità beduine che a loro volta però sono minacciate dai coloni», ci conferma Rashid Khudiri del Jordan Valley Solidarity.
E il ritorno è una chimera: «Una volta sgomberate, è pressoché impossibile che tornino, non hanno alcuna protezione. Gran parte sono comunità già rifugiate nel 1948, che continuano a essere cacciate. Qualcuna è alla quarta esperienza di trasferimento forzato», aggiunge Driscoll.
Al loro posto si espandono gli insediamenti coloniali israeliani. Alcune delle zone abbandonate sono state già ripulite, le poche strutture presenti vandalizzate o confiscate: «Assistiamo già all’espansione delle colonie, hanno preso alcune latrine e rimosso le tende. Il processo è lo stesso di sempre: una volta cacciati i palestinesi, l’insediamento occupa la terra».
Dove non arrivano i coloni, ci pensa l’esercito: «Dal 7 ottobre sono stati emessi ordini militari – conclude Shomali – per la confisca di decine di chilometri quadrati di terre a favore dell’esercito, per costruire torrette, nuovi checkpoint, piccole basi. Sta succedendo intorno a Gerico, Nablus, Salfit».
Il quadro lo traccia l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem: «La violenza dei coloni non è separata dalla violenza dello Stato. È il braccio ufficioso dello Stato per confiscare terre palestinesi. Lo era prima e lo è adesso. Approfittano del fatto che nessuno li sta guardando per prendersi la terra». Un’annessione silenziosa.