Daniel Ek, CEO di Spotify, investe nel settore militare. Alcuni artisti lo boicottano, ma senza una massa critica l’impatto resta limitato
Negli ultimi giorni Spotify è tornata al centro delle polemiche, ma stavolta non per il suo modello economico o per la distribuzione delle royalties. A scatenare la reazione di diversi artisti è stata una scelta personale del suo amministratore delegato e cofondatore Daniel Ek: l’investimento da oltre 600 milioni di euro nella startup tedesca Helsing, specializzata in tecnologie militari e intelligenza artificiale applicata alla difesa. Secondo il Financial Times, l’operazione ha portato la valutazione della società tedesca a circa 12 miliardi di euro, rendendola una delle startup più capitalizzate d’Europa. L’annuncio è arrivato il 16 giugno da Prima Materia, il fondo di investimento di Daniel Ek, già tra i primi sostenitori di Helsing nel 2021. A seguito del round di investimenti, lo stesso Ek ha assunto la presidenza del consiglio di amministrazione di Helsing.
A denunciare il conflitto etico tra i bassi compensi agli artisti e gli investimenti in tecnologie militari sono stati musicisti come Piero Pelù, che ha definito in un post su Instagram «uno schifo» la scelta di Daniel Ek e ha dichiarato che ritirerebbe volentieri i propri brani dalla piattaforma, se solo fosse ancora proprietario dei master. Più radicale la posizione dell’artista indipendente Auroro Borealo che ha annunciato – sempre attraverso Instagram – la rimozione del suo intero catalogo musicale da Spotify, invitando altri colleghi a fare lo stesso. Un gesto, finora imitato da pochi altri esponenti della scena indipendente, che solleva interrogativi più ampi sul rapporto tra arte, attivismo e piattaforme digitali.
Chi boicotta Daniel Ek e Spotify
I casi di artisti che rimuovono volontariamente la propria musica da Spotify, come Auroro Borealo, sono rari. Di recente, all’estero ha preso questa decisione la band californiana Deerhoof. Ma, sebbene molti musicisti famosi abbiano criticato le scarsissime remunerazioni offerte loro dalla piattaforma, quasi tutti oggi hanno il loro catalogo disponibile su Spotify. Anche artisti del calibro di Taylor Swift, Thom Yorke, Neil Young e Joni Mitchell avevano inizialmente rimosso i propri brani per protesta, ma vi sono poi tornati.
Nella maggior parte dei casi non sono loro a decidere la distribuzione della propria musica, ma le case discografiche con cui hanno contratti spesso rigidi. Nemmeno gli artisti più affermati riescono a negoziarne la rimozione. Per quelli meno noti, le difficoltà sono sia legali che economiche. Togliere la musica da Spotify riduce la visibilità e, seppur minimi, i ricavi dallo streaming restano una fonte di sostentamento importante.
Quale alternativa al modello estrattivo di Spotify
Trovare un’alternativa valida a Spotify, con la stessa ampiezza di catalogo e qualità del servizio, non è affatto scontato. Esistono YouTube Music, Apple Music e Amazon Music, ma restano pur sempre nelle mani delle Big Tech e offrono compensi molto bassi. Al di fuori di questi colossi ci sono piattaforme come Tidal e Bandcamp. Entrambi offrono cataloghi ampi e audio di alta qualità, ma nel caso di Tidal i compensi sono comunque inadeguati. Bandcamp è più etico nei confronti degli artisti, ma la sua tenuta nel lungo periodo è incerta.
«Spotify rappresenta una delle poche vetrine gratuite e globali, soprattutto per chi ha un pubblico medio-piccolo. Uscirne significa rinunciare potenzialmente a farsi scoprire, essere inclusi in playlist, avere numeri da poter presentare a promoter, locali, festival. È come rifiutare l’unico palco che, pur pagandoti pochissimo, ti permette almeno di esistere nel flusso continuo della musica digitale», spiega a Valori il critico musicale Giovanni Ansaldo, editor della newsletter Musicale. «Ed è proprio qui che il sistema si mostra per ciò che è. Un modello estrattivo, che fa leva sulla dipendenza degli artisti dalla visibilità per giustificare una remunerazione bassissima. Il problema non è solo Spotify come azienda — seppure sia emblematica, con un Ceo che ha dichiarato candidamente di non amare la musica — ma l’intera architettura del potere nell’industria musicale, che ha scelto di sacrificare il valore della musica in cambio della diffusione».
Purtroppo il boicottaggio dà pochi risultati se non c’è una massa critica, continua Ansaldo. «È necessario iniziare a immaginare e costruire alternative, anche imperfette, anche piccole. Perché se il modello dei concerti entra in crisi — e lo sta facendo: dopo l’invasione dell’Ucraina i costi per sostenere i tour sono lievitati e intanto i biglietti sono sempre più cari — non c’è piano B. A quel punto, sarà troppo tardi».
17/07/2025
da Valori