Un’ondata di scioperi sta interessando gli Stati Uniti a pochi giorni dall’insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump.
Dalla scorsa settimana stanno incrociando le braccia alcune migliaia di lavoratori di Amazon per uno sciopero indetto da un sindacato della logistica e dei trasporti proprio nel periodo – quelle delle feste di fine anno – che garantisce all’azienda i maggiori profitti.
A fermarsi in vari stati, alle sei del mattino del 19 dicembre, impedendo o rallentando finora la consegna di centinaia di migliaia di pacchi, sono stati in particolare i magazzinieri e i conducenti di camion e furgoni, per dar vita al più grande sciopero che abbia mai interessato finora la multinazionale americana. L’azienda, nei soli Stati Uniti, ha alle sue dipendenze dirette circa 100 mila lavoratori e lavoratrici, ma attraverso il sistema dei subappalti e delle esternalizzazioni può contare su altri 1,2 milioni di dipendenti indiretti, che nella maggior parte dei casi risultano formalmente “liberi professionisti”, una parte dei quali impiegati nei periodi di maggiore richiesta come appunto quello natalizio o il Black Friday di novembre.
Lo sciopero è partito dai lavoratori aderenti al sindacato International Brotherhood of Teamsters (IBT, un’organizzazione fondata nel 1903 che attualmente rappresenta 1,3 milioni di lavoratori negli Stati Uniti, in Canada e a Porto Rico) presenti in California, Illinois, New York e Georgia, e in seguito si è allargato ad altri stati. Dei picchetti si sono svolti davanti agli impianti di New York, di Atlanta, della California meridionale, di San Francisco e di Skokie. Le sezioni locali del sindacato dei Teamsters stanno anche organizzando picchetti presso centinaia di centri di distribuzione Amazon in altre località dl paese. Al blocco, sabato scorso, si sono uniti anche i lavoratori dell’hub aereo di San Bernardino (California), il più importante di tutta la costa occidentale.
Gli scioperanti chiedono, oltre al riconoscimento ufficiale della propria sigla sindacale da parte della multinazionale, di essere ammessi a negoziare un accordo di lavoro collettivo che garantisca salari dignitosi, turni di lavoro più umani e benefit.
«Se il tuo pacco è in ritardo durante le vacanze, puoi dare la colpa all’insaziabile avidità di Amazon. Abbiamo dato ad Amazon una scadenza chiara per presentarsi al tavolo e fare la cosa giusta per i nostri membri. L’hanno ignorata», ha affermato il presidente generale dei Teamsters, Sean O’Brien. «Questi dirigenti avidi avevano tutte le possibilità di mostrare decenza e rispetto per le persone che rendono possibili i loro osceni profitti. Invece, hanno spinto i lavoratori al limite e ora ne stanno pagando il prezzo. Questo sciopero è colpa loro».
«Questi lavoratori hanno il coraggio di affrontare un gigante e la convinzione di esigere ciò che hanno guadagnato di diritto. Non importa quanto duramente Amazon cerchi di tenerli a freno, lo spirito dei nostri membri è forte e non verrà mai spezzato» ha aggiunto il leader del sindacato.
«Quello che stiamo facendo è storico. Stiamo lottando contro una campagna feroce che osteggia i sindacati e vinceremo» ha riferito alla stampa statunitense Leah Pensler, magazziniera a San Francisco.
Finora l’azienda ha sempre rifiutato di riconoscere qualsiasi sindacato, facendo ampio ricorso ai subappalti, e nei giorni scorsi ha esplicitamente accusato l’IBT di gonfiare il numero dei suoi aderenti e di operare pressioni sui lavoratori per costringerli ad unirsi al blocco delle consegne.
Ma la crescita del sindacato è evidente. Dopo alcune mobilitazioni negli anni scorsi, più di 5000 lavoratori del magazzino di Staten Island (New York) hanno dapprima costituito una sigla locale – l’Amazon Labor Union – per poi entrare a far parte, a giugno, dell’International Brotherhood of Teamsters.
Per tutta risposta, l’azienda ha minacciato i dipendenti di chiudere gli stabilimenti dove i lavoratori si affiliano ad un sindacato e di trasferirsi in un altro stato. Per quanto i salari garantiti ai lavoratori siano in genere superiori al minimo di legge, i turni e le condizioni di lavoro sono massacranti, sia per i magazzinieri sia per i corrieri incaricati delle consegne, obbligati a ritmi inumani la cui osservanza è imposta dall’azienda attraverso contatori e applicazioni.
La maggior parte dei lavoratori non godono di assicurazioni – a meno che non siano in grado di pagarsele da soli – e risultando liberi professionisti non possono teoricamente affiliarsi alle organizzazioni sindacali.
“L’ossessione per la velocità e la produttività” – come la definisce il senatore socialista Bernie Sanders in un rapporto sull’azienda presentato recentemente al Senato americano – causa inoltre una forte insicurezza sul lavoro ed alti tassi di infortuni.
Il leader dell’IBT, Sean O’Brien, che pure rappresenta la corrente più combattiva del sindacato IBT, vanta una certa vicinanza a Donald Trump ed ha partecipato nei mesi scorsi ad alcune convention del candidato repubblicano poi uscito vincitore nella sfida con Kamala Harris. Ma, nonostante la sua retorica populista (orientata più che altro a legittimare i dazi ai prodotti cinesi ed europei) sulla difesa della classe operaia americana, difficilmente il tycoon prenderà posizione a favore del sindacato, soprattutto dopo che nelle ultime settimane il fondatore e padrone di Amazon, Jeff Bezos, sembra essersi avvicinato all’ex presidente.
Oltre ai lavoratori di Amazon, sul piede di guerra ci sono anche quelli di un altro grande gruppo economico statunitense. In sciopero nel fine settimana sono entrati anche numerosi dipendenti della catena Starbucks di Chicago, Los Angeles e Seattle. Organizzati da un sindacato aziendale – lo Starbucks Workers United – i dipendenti si asterranno dal lavoro fino alla vigilia di Natale obbligando alla chiusura prolungata la maggior parte delle caffetterie presenti nelle tre grandi città.
Anche in questo caso, al centro della mobilitazione c’è la richiesta di un contratto collettivo di lavoro dopo che da mesi le trattative si sono arenate a causa del rifiuto dell’azienda di garantire aumenti salariali degni di nota.
E, come ad Amazon, baristi e camerieri denunciano il progressivo peggioramento delle condizioni di lavoro – ritmi insostenibili, precarietà diffusa, comportamenti antisindacali – e salari non adeguati. Dopo la pandemia – la ripresa dell’attività dopo la fine dell’allarme ha causato ovunque una stretta sulle condizioni di lavoro – i lavoratori di alcune città hanno cominciato a mobilitarsi e ad organizzarsi, fondando il primo sindacato a Buffalo nel 2021. La direzione della multinazionale ha però reagito in maniera scomposta, imponendo sanzioni ai dipendenti affiliati al sindacato e negando a lungo ogni negoziato finché, dopo una serie di proteste, Starbucks ha dovuto accettare di sedersi ad un tavolo con i rappresentanti dei lavoratori per una trattativa che si è però rivelata infruttuosa.
23/12/2024
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