Sotto lo sguardo conscio ma dalle reazioni inefficaci della comunità internazionale la guerra in Sudan da ormai oltre un anno sta distruggendo la vita di milioni di persone, l’economia del paese, e polarizzando le relazioni internazionali.
In poco più di un mese si è abbondantemente superato il numero delle vittime – 15.550 - calcolato a un anno esatto dall’inizio del conflitto (15 aprile 2023). E tuttavia, secondo l’Armed Conflict Location & Event Data Project (ACLED) e altri esperti questi numeri sono notevolmente sottostimati, a causa della difficoltà nel raccogliere dati accurati e in tempo reale. Il numero degli sfollati è pari quasi a 11 milioni di persone, quelli interni ha raggiunto l’impressionate cifra di 8,8 milioni, vale a dire dall’inizio del conflitto solo poco più di 2 milioni di persone sono riuscite a trovare rifugio in paesi confinanti. E questo ne fa la più grande crisi umanitaria al mondo con il serio rischio di carestia, più volte sottolineato dalle agenzie umanitarie. L'economia ha subìto una contrazione del 40% nel 2023 e la previsione è di un ulteriore calo del 28% nell’anno in corso.
Infine, molte sono le influenze esterne in questo conflitto, alcune più chiare ed evidenti, altre più occulte e contorte. Influenze che si evidenziano prevalentemente sotto forma di aiuti militari alle due parti che si contendono il potere: le Forze Armate sudanesi (SAF) con a capo il generale Abdel Fattah al-Burhan e le Forze paramilitari di supporto rapido (RSF) guidate dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, meglio noto come Hemeti. Egitto e Iran forniscono armi alle SAF, gli Emirati Arabi Uniti alle RSF. L’Eritrea garantisce campi di addestramento a gruppi armati associati alle SAF. Mentre forze speciali ucraine stanno combattendo contro le RSF e i mercenari russi a Khartoum, allo scopo di creare problemi a Mosca ma anche in cambio della fornitura di armi da parte delle SAF all'Ucraina. E questo mentre il governo di transizione sudanese firma accordi economici e militari con la Russia, incluso un supporto logistico navale nel mar Rosso. Quindi, nonostante il sostegno dei mercenari russi alle forze opposte.
E l’Unione Europea? Qualche mese fa il Consiglio dell’UE ha sanzionato sei entità "responsabili del sostegno ad attività che minano la stabilità e la transizione politica del Sudan", alcune sono società che producono armi e veicoli impegnati nel conflitto. Assai poca cosa rispetto al giro di armi a cui possono accedere i belligeranti. Ma la cosa più seria è una certa dose di responsabilità delle politiche europee nell’aver supportato il rafforzamento delle RSF – attraverso programmi di respingimento dei migranti e di controlli delle frontiere, in particolare dal Sudan verso l’Egitto e la Libia, firmati con l’allora presidente del Sudan, il dittatore Oman al-Bashir, come ricorda l’SWP, Istituto tedesco per gli affari internazionali e la sicurezza.
L’accordo aveva garantito il necessario sostegno economico e quella sorta di “autorizzazione politica” a usare ogni mezzo per combattere le migrazioni verso l’Europa. Ma quel ogni mezzo si è trasformato in superpoteri per le milizie guidate da Hemeti, poi denominate Forze di Supporto Rapido ma che derivano dai famigerati Janjaweed, milizie arabe note per le atrocità compiute in Darfur. Questa provincia della parte occidentale del Sudan nel 2003 aveva cominciato azioni di ribellione contro il governo centrale accusato di “disattenzione politica ed economica” nei confronti della parte non araba del paese.
Negli anni si è parlato di genocidio nei confronti degli abitanti del Darfur, termine che oggi ritorna prepotentemente, poiché la parte peggiore del conflitto in corso in Sudan si è spostato proprio in quella regione. E tutto questo nella evidente impotenza del resto del mondo. ACLED lo ricordava poco tempo fa che “la violenza mirata in Darfur aveva il doppio delle probabilità di essere mortale per i civili rispetto agli stati del Sudan”.
Così è. Nella regione sarebbero in corso veri e propri attacchi di pulizia etnica con l’assedio in corso della capitale El Fasher. Un “inferno sulla terra”, secondo le parole di alcuni funzionari delle Nazioni Unite. Nei dati aggiornati dell’OCHA (Ufficio Affari Umanitari delle Nazioni Unite) si parla di 800.000 civili sotto assedio e di centinaia di famiglie sfollate. E all'El Fasher South Hospital, l'unico ospedale funzionante, sono rimaste scorte solo per circa dieci giorni.
Secondo notizie fornite da Sudan Tribune il bombardamento del campo per sfollati interni di Abu Shouk da parte delle RSF, ha costretto circa il 60% dei suoi 400.000 residenti ad abbandonare le proprie dimore. Inoltre, più di una dozzina di camion che trasportano aiuti per più di 121.000 persone stanno cercando di raggiungere El Fasher da più di un mese, ma il perdurare delle azioni armate non consente i movimenti interni.
La violenza si sta abbattendo soprattutto nei confronti della popolazione Massalit (altre popolazioni non arabe sono i Fur e i Zaghawa), come evidenziato dal recente report di Human Rights Watch che non esita a parlare di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Allontanamenti forzati, torture, stupri sono all’ordine del giorno ed è assai difficile avere numeri accurati. Sempre Sudan Tribune riporta di una campagna dedicata alla lotta allo stupro e alla violenza sessuale in Sudan che ha documentato 377 casi di stupro dall’inizio del conflitto, inclusi 131 casi che coinvolgono giovanissime. E la maggior parte di tali azioni criminose è avvenuta nel Darfur.
Il rapporto sottolinea però – ancora una volta - che tali crimini sono sottostimati sia a causa delle difficoltà di comunicare all’interno del paese sia a causa della natura conservatrice della società sudanese e dello stigma associato alla violenza sessuale. Ci si prova a raccontare quello che succede con le testimonianze delle persone coinvolte ma non certo facili da raggiungere, con i report e le analisi delle ONG e con le immagini satellitari. Un lavoro investigativo condiviso in open source sui social che mostra la gravità della situazione: i villaggi distrutti, i civili sfollati, i paramilitari armati fino ai denti. Evidenze che rendono ancora più drammatica l’incapacità di intervento – e in certo senso l’impossibilità viste le tante forze direttamente o indirettamente coinvolte nel conflitto - della comunità internazionale.
Attraverso la geolocalizzazione lavora anche Sudan Witness che sta in questi ultimi giorni registrando un incremento di intercettazioni di immagini (centinaia) di incendi, villaggi, città e aree devastate che corrispondono all’intensificarsi dell’offensiva sulla capitale del Darfur.
E così mentre l’attenzione dell’occidente – e della stampa occidentale - è rivolta ai conflitti in corso in Ucraina e Gaza, una milizia genocidaria sta guadagnando terreno nel paese e ora sta raggiungendo tutto il Nord del Darfur. La regione confina con il Chad, uno dei paesi che – insieme all’Egitto, dove si sono riversati soprattutto profughi provenienti dalla capitale, Khartoum – accoglie il numero più alto di rifugiati che risultano, però, praticamente abbandonati a se stessi nei campi allestiti in tutta fretta per dar loro riparo. È attraverso il Chad, tra l’altro, che gli Emirati inviano armi e assicurano trattamenti medici alle RSF.
Non sono così fortunati i civili. Già da gennaio scorso Medici senza Frontiere parlava di un sistema sanitario sull’orlo del collasso a Khartoum mentre man mano che prosegue l’avanzata delle milizie ci si trova costretti a lasciare i presidi medici. La cosa peggiore è che gli ospedali sono presi di mira da entrambe le forze sul campo – così come sono presi di mira gli operatori sanitari. Finora - ma anche in questo caso sono cifre sottostimate – nel paese sono stati segnalati circa 60 attacchi contro strutture sanitarie, molte occupate dall’una o dall’altra parte del conflitto, e il resto presenta carenze di farmaci e problemi di sicurezza; sono state inoltre registrate più di 200 violazioni contro il personale medico e 38 operatori sanitari sono rimasti uccisi.
La conseguenza di uccisioni, rapimenti e aggressioni a danno dei medici – si denuncia in questo paper a firma di due docenti e ricercatori dell’università di Khartoum – è oggi un’enorme carenza di personale nelle poche strutture a malapena funzionanti. E man mano che il conflitto diventa più feroce e senza regole anche la stampa ne subisce le conseguenze. Non solo in termini di azioni violente – uccisioni, rapimenti, detenzioni – ma creando condizioni in cui è impossibile lavorare. Blackout, interruzione di canali o trasmissioni televisive e controllo di alcune stazioni hanno creato una sorta di nebulosa sugli accadimenti in Sudan. La tecnologia – come dicevamo facendo riferimento alle ricostruzioni possibili grazie alle immagini satellitari - supplisce alla carenza di reportage in diretta. Immagini sufficienti comunque a non lasciare dubbi su una tragedia che sembra non vedere una via d’uscita.
Immagine in anteprima: frame video PBS NewsHour via YouTube
31/05/2024
da Valigia blu