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Sudan, la guerra civile dove si muore in silenzio

Sudan, la guerra civile dove si muore in silenzio

Politica estera

24/09/2025

da Remocontro

Piero Orteca

Esistono guerre dimenticate da tutti, dove si muore quotidianamente uccisi dall’odio di altri uomini e dall’indifferenza del mondo. Come nel Sudan, diventato, numeri alla mano, non solo un inferno in terra, ma anche una vera bomba atomica a orologeria, dal punto di vista geopolitico.

 

Quattordici milioni di rifugiati

L’ultimo rapporto dell’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni (OIM) lascia scioccati: nel Paese, dilaniato da una feroce guerra civile, ci sono attualmente oltre 10 milioni di ‘internally displaced’, cioè di profughi interni. Gente che non ha più una casa e che vaga senza meta, cercando solo di salvare la pelle e di riuscire a scappare. Possibilmente oltre frontiera, dove già sono riusciti a rifugiarsi altri 4,2 milioni di sudanesi. D’altro canto, la situazione sociale, politica ed economica è così disperata che si profila all’orizzonte il rischio di un esodo biblico, un vero tsunami migratorio, difficilmente gestibile dagli Stati confinanti. Secondo le valutazioni incrociate, fatte dalle diverse Agenzie delle Nazioni Unite che operano per l’assistenza internazionale e il sostegno allo sviluppo, quella del Sudan è certamente, per dimensioni e gravità, la crisi umanitaria più devastante del mondo. E siccome piove sul bagnato, agli atavici problemi del Paese, consumato da eterne lotte tribali e spremuto come un limone, in passato, dal colonialismo britannico, da ultimo si è aggiunto l’ennesimo sanguinoso conflitto, che viene combattuto facendo pagare un prezzo pesante alla popolazione civile.

Alle origini della guerra civile

Il conflitto interno al grande Stato africano è ripartito nell’aprile 2023, quando sono venuti a galla, violentemente, le divergenze tra i due generali dell’esercito che avevano deposto, con un golpe, il Presidente Omar al-Bashir (nel 2019). Per la verità, i due ufficiali, Abdel Fattah al-Buhran e Mohamed Hamdan Dagalo, prima accettarono un interregno di civili, ma poi se ne sbarazzarono. Con un altro colpo di Stato. Al-Buhran si prese il comando dell’esercito, mentre a Dagalo toccò quello delle Rapid Support Forces (RSF) una milizia paramilitare islamista, pesantemente armata e forte di 100.000 uomini. Già tristemente nota per le stragi effettuate in Darfur, quando il suo nocciolo duro si chiamava Janjawid e si macchiava di crimini di guerra, secondo l’accusa di Human Rights Watch. Sembra che sia stato proprio il ruolo ambiguo delle RSF, a fomentare i primi scontri tra Al-Buhran e Dagalo. Quest’ultimo non accettava che la sua milizia fosse assorbita e controllata dall’esercito, sottraendogli così un formidabile potere contrattuale. Alla fine le RSF sono andate all’assalto di Khartoum, conquistando dopo furiosi combattimenti gran parte della capitale. L’offensiva contro i regolari dell’esercito si è poi estesa a macchia di leopardo in altre regioni, a cominciare dal Darfur, la vera roccaforte degli islamisti, dove città dopo città, sono caduti tutti i capisaldi di Al-Buhran. Tutti meno la ‘Stalingrado’ sudanese: El-Fasher. In questo grosso agglomerato sono stipate, sotto assedio e alla fame, 300 mila persone. Se dovesse cadere, si teme che gli ex jihadisti di RFS possano compiere una strage, accanendosi su una popolazione composta anche da etnie non arabe.

Implicazioni internazionali

Nei due anni di guerra civile, secondo stime approssimative, sarebbero morte oltre 150 mila persone. E tutto questo tra l’indifferenza generale della comunità internazionale. Forse perché non si ritiene il peso strategico del Sudan così rilevante, da giustificare un’azione diplomatica più decisa. O forse perché chi deve agire riesce a farlo sottobanco, curando i propri interessi senza esporsi troppo. Sul banco degli imputati ci stanno in tanti. Primi gli Emirati Arabi, generosi finanziatori delle RFS, alle quali fanno arrivare armi (tra cui anche droni ucraini) via Ciad o Libia e Repubblica Centrafricana. Il governo di Al-Buhran riceve invece sostegno da Arabia Saudita, Turchia e soprattutto Egitto. Dietro Dogala ci sarebbe anche la Russia, interessata alle miniere d’oro di Jebel Amer in Darfur, un ‘cespite’ che fino a poco tempo fa era curato direttamente dalla famigerata milizia ‘Wagner’. L’oro sudanese finisce anche a Mosca, magari transitando da Abu Dhabi? Certo, non lo sappiamo e ogni congettura è lecita. Anche perché la CNN qualche tempo fa ha rilanciato una notizia che ha dell’incredibile: droni ucraini all’attacco sul ponte Shambat, che collega Omdurman a Khartum. Una rappresaglia per l’oro ceduto a Putin? Fonti dell’Intelligence di Kiev, comunque, hanno replicato alla notizia, dicendo di «non potere né confermarla e né smentirla». Cosa che lascia aperte tutte le ipotesi.

L’ONU cerca di metterci una pezza

Tutto il Sudan traballa, ma l’epicentro della guerra civile a questo punto è il Darfur, Anche se Khartoum rimane in equilibrio precario, visto che la sua riconquista non sembra essere stata completata. Ma nella grande regione a ovest del Paese, i miliziani delle RFS praticamente spadroneggiano. E per questo il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha deciso di rinnovare il regime di sanzioni al Sudan e un embargo sulle armi, limitato però al Darfur. Nel comunicato ufficiale si legge: «Il conflitto in Sudan è alimentato principalmente dall’interferenza straniera». Il rappresentante della Sierra Leone, parlando anche a nome di Algeria, Guyana e Somalia, ha affermato che le loro delegazioni hanno votato a favore della risoluzione poiché «il testo copre le loro principali preoccupazioni». In particolare, l’allineamento delle tempistiche per il rinnovo delle misure sanzionatorie e il mandato del Gruppo di esperti. Ha osservato che, nonostante le sanzioni, il conflitto in Sudan continua a essere alimentato principalmente dal sostegno militare e dalle interferenze straniere da parte di attori esterni. Di conseguenza, ha sollecitato ‘il rispetto delle misure sanzionatorie e l’assunzione di responsabilità da parte dei responsabili di tali violazioni e abusi’. Il rappresentante del Pakistan – aggiunge la nota – ha accolto con favore l’allineamento del regime di sanzioni al mandato del Gruppo di esperti. Esprimendo profonda preoccupazione per le continue violazioni dell’embargo sulle armi e ha sottolineato che «è imperativo che tutti gli Stati rispettino l’embargo».

Sarà una nostra fissazione, ma dietro ogni guerra, c’è sempre e inevitabilmente un gigantesco supermarket, di armi e materie prime. E i più infuocati ‘idealisti’, in genere, sono anche i primi a presentarsi alla cassa.

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