14/08/2025
da il Manifesto
Palestina. L’esercito presenta il piano, Netanyahu parla di missione spirituale e manda una viceministra in Sud Sudan per progettare la cacciata. Spianare tutto: secondo le stime servirà più di un anno per cancellare ogni traccia di vita palestinese
«C’è una ragione più profonda per credere che Israele non si fermerà alla sola Gaza City: la storia». Così si legge sulle pagine del quotidiano israeliano Haaretz, in un articolo di Dahlia Scheindlin dal titolo «Non fatevi ingannare di nuovo: Netanyahu sta pianificando un’occupazione totale di Gaza».
Il volto del premier israeliano, lo sguardo truce e il sorriso di compiacimento occupano in questi giorni televisioni e giornali israeliani e internazionali, oltre ai social media. Spiega il suo «piano» per Gaza City con ogni mezzo possibile, in ebraico e in inglese. Lo fa con parole diverse, tracciando linee e percorsi non esattamente sovrapponibili in patria e all’estero.
IERI L’ESERCITO ha comunicato che il capo di stato maggiore Eyal Zamir ha approvato «il quadro principale» del piano operativo nella Striscia. Centomila riservisti, una battaglia dura con i combattenti di Hamas in mezzo a una popolazione civile di 1,2 milioni di persone stipate nelle tende e negli edifici danneggiati. Tutti da cacciare. Lo sfollamento forzato della popolazione è stato definito essenziale dai vertici dell’esercito.
Secondo fonti militari dovrebbe durare da una settimana a dieci giorni. Insieme a uno scontro sul campo che si prevede particolarmente complicato: i combattenti di Hamas sono preparati e possiedono esplosivi e missili anticarro, che useranno insieme al fuoco dei cecchini per opporsi all’avanzata. Lo sfollamento, come più volte accaduto in questi mesi, avverrà con i bombardamenti delle aree densamente popolate, i carri armati puntati contro la popolazione civile, la distruzione degli edifici ancora in piedi, il coprifuoco e gli ordini di evacuazione.
IL NUMERO delle vittime civili non è quantificabile. I raid che in questi giorni si sono intensificati su Gaza City hanno già fatto centinaia di morti. Ieri cinque bambini della famiglia Abu Hanidek sono stati uccisi con i genitori in un bombardamento che ha colpito la loro tenda, in uno dei campi di fortuna sparsi per la città che ospita almeno 500mila profughi.
L’esercito spingerà tutti verso sud, nella zona di al-Mawasi, costringendo l’intera popolazione di Gaza, più di due milioni di persone, nel 25% del territorio della Striscia. Le dichiarazioni su un’«amministrazione civile alternativa» araba che escluda sia Hamas che l’Autorità nazionale palestinese, sono una cortina fumogena che prova a nascondere una realtà chiara a tutti. Nessuno stato arabo è disposto ad accettare una posizione del genere senza l’impegno, da parte di Tel Aviv, di riconoscere uno stato palestinese indipendente. Ma Netanyahu e i suoi alleati non intendono assolutamente aprirsi a una possibilità del genere. Neanche a parole.
Per questo continua frenetica la ricerca di stati disposti ad accogliere i palestinesi cacciati da Gaza. L’espulsione è l’unico modo per occupare l’intera Striscia senza prendersi carico della popolazione, mettendo in moto la macchina speculativa della ricostruzione e della colonizzazione israeliana.
NETANYAHU è tornato a ripeterlo alla tv, di essere impegnato in una «missione storica e spirituale» connessa alla visione della «grande Israele» e che mandar via la popolazione è «la cosa giusta da fare». A questo scopo, secondo almeno sei diverse fonti dell’Associated Press, Tel Aviv sta tenendo colloqui con il Sud Sudan. Una delegazione israeliana prevederebbe di visitare il Paese africano per valutare le aree in cui stabilire campi profughi.
Ieri la viceministra israeliana degli esteri, Sharren Haskel, si trovava proprio nel Paese africano nella prima visita ufficiale di un rappresentante di Tel Aviv. Il governo sudanese ha negato in una nota i colloqui, dichiarando che le notizie sono «infondate e non riflettono la posizione o la politica ufficiale» del governo. Si tratterebbe di colloqui semi-formali che vanno probabilmente avanti da mesi e non solo con il Sud Sudan.
Per consentire a Tel Aviv di portare avanti la pulizia etnica di Gaza, un Paese solo non basta. Il primo «sì» potrebbe però comportare un effetto a catena. Non sono pochi gli stati a cui farebbero comodo alleanze, soldi e promesse da parte di Israele e del potente alleato statunitense.
INOLTRE, il «reinsediamento» potrebbe essere ufficialmente presentato come temporaneo e umanitario. Anche se dopo l’espulsione da Gaza City, quello che il piano israeliano prevede è la distruzione totale della città, perché nessun palestinese possa farvi ritorno. Diversi membri del gabinetto di sicurezza hanno chiesto di fare a Gaza City ciò che è stato fatto a Beit Hanoun: cancellare ogni struttura civile che ricordi la vita di un popolo, esseri umani che hanno costruito e abitato strade, scuole, uffici, parchi, luoghi religiosi, stadi, ospedali. Il 70-80% degli edifici della città è già distrutto o danneggiato. Ma gli scheletri sono più alti e resistenti degli edifici di Beit Hanoun.
Ci vorranno più tempo e più mezzi per abbatterli tutti, soldati e bulldozer degli appaltatori privati, lautamente ricompensati e protetti dall’esercito. Secondo le stime servirà più di un anno per radere al suolo ogni traccia di vita umana.
Intanto, ieri, almeno 89 persone sono state uccise a Gaza dall’alba al tramonto, di cui 52 a Gaza City. Nei pressi di Nablus, nella Cisgiordania occupata, un colono israeliano ha ucciso un agricoltore palestinese, Thamin Khalil Reda Dawabsheh, aveva 35 anni.