15/10/2025
da Il Manifesto
Lina Ghassan Abu Zayed Scrittrice e laureata in Optometria presso la Facoltà di Medicina e Scienze della Salute
Hanno fatto la pace. I robot esplosivi e gli ordigni israeliani restano nelle strade e le case e provocano altre stragi. L’ennesima bomba a orologeria
Nelle ore tranquille prima dell’alba, mentre i quartieri di Gaza sono avvolti da un sonno inquieto, un veicolo avanza silenziosamente sotto la copertura dell’oscurità. Si ferma davanti a una casa e in un solo istante tutto viene ridotto in polvere. Niente case, niente strade, niente persone. Solo macerie, vuoto e una pesante nuvola di cenere.
NON È FANTASCIENZA. È una delle tattiche più terrificanti dell’offensiva a Gaza. La gente li chiama «robot esplosivi»: vecchi veicoli blindati carichi di almeno sette tonnellate di tritolo, guidati a distanza nelle zone residenziali. Esplode con una forza catastrofica, cancellando in un attimo vite, luoghi e ricordi. Anche dopo l’’apparente cessate il fuoco, i crimini dell’occupazione sono presenti a ogni angolo. Nel nord di Gaza robot carichi di esplosivi sono stati lasciati tra le case, bombe a orologeria nascoste nei vicoli, in grado di distruggere interi isolati. Queste macchine non sono l’unico pericolo: i residuati bellici come razzi inesplosi e munizioni abbandonate disseminano le strade, il minimo movimento o errore potrebbero scatenare una catastrofe.
Anche le cose più semplici hanno perso la loro innocenza: le razioni di cibo, che dovrebbero sostenere la vita, sono state lasciate imbottite di esplosivi, pronte a esplodere quando aperte e uccidere una persona affamata in cerca di un boccone. Una casa ancora in piedi, mobili intatti, semplici sogni di ritorno: tutto diventa inabitabile se nelle vicinanze c’è un robot o una trappola esplosiva. Non basta che i muri rimangano in piedi per sentirsi al sicuro; la presenza di questi dispositivi trasforma una casa in una trappola. Dire che la guerra è finita è un’affermazione vuota: mentre la violenza diretta si è placata, i suoi residui criminali permangono, seminando paura e rubando la sicurezza dalla vita quotidiana, in attesa di una singola piccola azione per scatenare il disastro sulle nostre case.
CIÒ CHE DISTINGUE questi attacchi non è solo la loro distruzione, ma il loro silenzio. Non lasciano corpi da contare, né sopravvissuti che possano testimoniare. Intere famiglie vengono inghiottite dalle macerie in modo così totale che persino i loro nomi rischiano di essere dimenticati. Alla morte segue la cancellazione, una doppia perdita che ferisce sia i vivi che i morti.
Le famiglie rimangono sospese in un limbo tra due parole insopportabili: «martire» o «disperso». Non ci sono tombe da visitare, né funerali in cui piangere, né elenchi di nomi a cui aggrapparsi. Il mondo guarda, incapace di misurare ciò che non si vede, mentre la memoria stessa si frammenta, portata solo da coloro che rimangono.
Nel nord di Gaza, da cui migliaia di famiglie hanno rifiutato di fuggire, queste armi sono diventate una forma di punizione collettiva. Un decreto non detto sembra aleggiare nell’aria: chi resta sarà cancellato. La determinazione dei civili, un tempo atto di silenziosa sfida, viene trattata come se fosse un crimine. Le case che hanno scelto di rimanere piene di vita vengono punite con la distruzione totale, come se la loro stessa esistenza non fosse mai stata consentita.
I RESIDENTI DI GAZA descrivono tutti le stesse scene inquietanti: case rase al suolo in pochi secondi, quartieri trasformati in gusci vuoti, come se il tempo li avesse ignorati. Haya, del quartiere di Sabra, ricorda il momento in cui la sua strada è stata colpita: «Quando il robot esplosivo è detonato, i piani inferiori sono scomparsi completamente, come se fossero stati inghiottiti dalla terra. Sono rimaste le pareti, vuote e prive di significato, aprendo la strada alle forze armate che hanno potuto avanzare senza incontrare resistenza».
Dal campo profughi di Shati, Mohammad Ghanem, 27 anni, sfollato, racconta di aver perso dei parenti che vivevano a soli cinque minuti di distanza: «Abbiamo sentito il rombo dei motori dopo mezzanotte. Meno di un minuto dopo, un’esplosione ha scosso tutto. Quando abbiamo cercato di raggiungere la zona… non c’era più. Completamente cancellata». Da Sheikh Radwan, Sarah condivide un ricordo che non riesce a dimenticare: «Dopo l’esplosione, non c’era traccia dei nostri vicini. La casa era scomparsa, come se non fosse mai esistita. Ciò che fa più paura che anche i loro nomi svaniscano, che il loro ricordo venga sepolto insieme alle pietre».
Queste testimonianze fanno eco alle notizie secondo cui centinaia di veicoli di questo tipo sono stati usati in tutta Gaza, ciascuno dei quali trasportava esplosivi sufficienti a spazzare via interi isolati, senza lasciare né corpi né sopravvissuti.
ALL’OSPEDALE AL-SHIFA di Gaza, un medico descrive le dolorose conseguenze: le famiglie arrivano alla ricerca dei propri cari, ma dai quartieri rasi al suolo non vengono portati corpi. I loro nomi rimangono nel limbo dei dispersi. Molti ritengono che lo scopo di questi attacchi vada oltre la distruzione. Sono armi di guerra psicologica, strumenti per instillare un terrore così profondo che le persone abbandonano le loro case prima che anche queste vengano rase al suolo. Spiega il medico: «Quest’arma non serve solo a uccidere il corpo. Serve a spezzare lo spirito. Costringe allo sfollamento, usando la paura come l’esplosione più potente di tutte».
LE ORGANIZZAZIONI per i diritti umani avvertono che tali tattiche equivalgono a una punizione collettiva, che potrebbe raggiungere il livello di crimini di guerra secondo il diritto internazionale. Tuttavia, le dichiarazioni ufficiali dell’esercito respingono le testimonianze dei civili, insistendo sul fatto che vengono presi di mira solo «i combattenti e le infrastrutture militari». La tragedia non sta solo nella perdita di oggi, ma in ciò che potrebbe rivelare il domani. Quando la guerra finirà davvero, il numero dei morti potrebbe raddoppiare, ma molti dei loro nomi rimarranno sconosciuti. Cancellati dai registri, dalla memoria, dal lutto stesso.
EPPURE, TRA LE ROVINE, la speranza persiste. La speranza che queste storie vengano raccontate, che i dispersi vengano ricordati, che la giustizia – per quanto tardiva – trovi la sua strada verso coloro che sono scomparsi senza lasciare traccia. La speranza che Gaza, nonostante ogni tentativo di cancellarla, resista come testimone vivente, portando con sé i nomi e i sogni della sua gente, tramandandoli di generazione in generazione.
Lina Ghassan Abu Zayed