10/10/2025
da Remocontro
Una strana tregua, in bilico tra il rilascio degli ostaggi e il ritiro israeliano su meno della metà della Striscia, ma il cessate il fuoco non è ancora cominciato davvero. Molti a chiamarla Pace per compiacere Trump in cerca di Nobel. E la parola ‘genocidio’ è scomparsa dai titoli.
«A prima vista, dopo questo genocidio, sembra ancora valido l’antico detto di Tacito: avete fatto il deserto e la chiamate pace», cita Alberto Negri.
Guardi Gaza e la parola pace diventa preghiera
Il deserto di Tacito. «Perché questo è, dopo 70mila morti, una Striscia di Gaza completamente distrutta, senza case, acqua, cibo, scuole e ospedali, con migliaia di palestinesi sotto tende di fortuna, affamati e ancora senza diritti riconosciuti. Perché questo è oggi il popolo palestinese, ridotto da questo accordo a una fantasmatica comparsa e che nessuno, né ora né in un futuro palpabile, pensa debba essere consultato».
Tregua dei colonialisti, gioia e dubbi
«Questa è, ma già lo sapevamo, la tregua dei colonialisti. L’ha imposta Trump e poteva arrivare con largo anticipo risparmiando migliaia di lutti e distruzioni. È una tregua che accogliamo con gioia perché salva delle vite ma anche con rabbia proprio perché siamo ben coscienti che poteva arrivare molto prima, anche più di un anno fa, per esempio, con il piano Biden affossato da Netanyahu, che della guerra si nutre per restare al potere. Ecco perché non possiamo parlare di pace: anche il più inesperto del Medio Oriente diffida di un accordo che lascia così grandi macerie umane e politiche».
Da Gaza intanto, la gioia d’essere vivi
«I palestinesi della Striscia sono scesi per le strade, soprattutto i più giovani, tra canti e abbracci. I membri della protezione civile hanno organizzato un breve corteo per celebrare l’evento e la fortuna di essere ancora vivi», scrive Eliana Riva, che racconta di famiglie evacuati almeno quattro volte. «Abbiamo bisogno di tornare a vivere». Presto li aiuti umanitari dovrebbero entrare lungo tutta la Striscia. Cibo e medicine agli ospedali e ai profughi schiacciati a sud. Quattrocento camion giornalieri per i primi cinque giorni, secondo fonti egiziane. «Dobbiamo agire ora per fornire cibo e assistenza salvavita. Non c’è tempo da perdere», invoca l’Onu.
‘Quando finisce la guerra non inizia la pace’
L’ammonimento della dottoressa Lina Ghassan Abu Zayed da ‘Al-Mawasi’. «Quando le bombe smettono di cadere, il mondo presume che la guerra sia finita e la chiama pace. Ma a Gaza il silenzio che segue il bombardamento non è pace; è l’inizio di un confronto con il vero dolore. Un cessate il fuoco non significa la fine, significa semplicemente che il rumore si è placato, permettendo alla voce del dolore di farsi sentire». «Nel momento in cui viene dichiarata la calma, la memoria inizia a parlare. Il padre che ha perso suo figlio si sveglia ogni mattina con la sua immagine. La donna che ha detto addio al marito martire impara a parlare all’assenza stessa. Il bambino sopravvissuto porta negli occhi il ricordo di una casa ridotta in cenere».
Un risveglio doloroso
«Questa fragile calma che aleggia sulle rovine è lo spazio in cui gli abitanti di Gaza si confrontano con se stessi, scoprendo che la sopravvivenza non è conforto, ma una nuova responsabilità. Vivere dopo tutto questo significa portare il dolore di coloro che non ce l’hanno fatta. Così, quando il fuoco si spegne, non inizia la pace, ma le parole. Parole di cuori afflitti, ricordi pesanti e persone che cercano la loro strada in una città sfinita dalla perdita. A Gaza, la fine della guerra non è la fine; è l’inizio di un altro capitolo di sofferenza silenziosa, non meno dolorosa dei bombardamenti».
La ricostruzione non inizia con le pietre, ma con i cuori. Le case possono essere ricostruite, ma chi ricostruisce gli esseri umani che vi abitavano?
Tel Aviv ascolta Bibi ma il suo eroe è Donald
Si festeggia in queste ore, ma l’accordo di cessate il fuoco mostra i suoi limiti. Trump parla di pace in tutto il Medio Oriente, ma poi concentra gran parte del suo impegno sull’attuazione della prima fase del piano. Ma l’attento Michele Giorgio ci segnale che appena è giunta la notizia dell’accordo tra Israele e Hamas, in Cisgiordania i coloni hanno reagito a modo loro. Decine di coloni hanno occupato la città palestinese di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme est, piantando tende tra le case dei residenti. A Deir Jarir, un villaggio vicino Ramallah, mercoledì hanno ucciso un giovane di 26 anni e ferito altre tre persone. A Hebron, durante un raid, i militari israeliani hanno ferito tre ragazzini palestinesi di 14 e 16 anni.
E domenica Trump a Gerusalemme
Restando a Trump, aspirante Nobel per la pace e padrino del Patto di Abramo, è già in partenza per il viaggio del suo trionfo, quando tra domenica e lunedì potrà fare un discorso alla Knesset israeliana, dove sicuramente si autocelebrerà come il grande vincitore. Anche se l’intesa non è il risultato di un compromesso tra le parti in conflitto -Israele e Hamas – ma soprattutto della volontà americana sostenuta dai mediatori regionali, Qatar, Egitto e Turchia. «Il genocidio di Gaza non era evidentemente più funzionale ai piani presidenziali», la considerazione amara di Negli. Che assieme avverte.
La resistenza palestinese continuerà
- «Una cosa è certa: la resistenza palestinese continuerà, anche se la società civile deve rinascere dalla distruzione e dalla sanguinosa e pervasiva repressione di Israele. E dovrà proseguire anche la mobilitazione europea, soprattutto qui, dove il governo non vede l’ora di svuotare le piazze e intestarsi un accordo al quale ha contribuito soltanto vendendo e importando armi da Israele, senza mai riconoscere lo stato palestinese, assumendo il ruolo di ventriloquo di Netanyahu e insultando i volontari delle Flottiglie umanitarie. Altro che sovranisti».