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Tregua o no, Israele tiene i valichi chiusi: a Gaza gli aiuti non entrano

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Politica estera

06/11/2025

da Il manifesto

Eliana Riva 

Terra rimossa In vista dell’inverno e con 1,5 milioni di palestinesi senza un riparo, milioni di kit termici, tende e coperte bloccati in Egitto e Giordania. In Cisgiordania la comunità di Umm al Kheir minacciata di demolizione: «È un atto di espulsione»

Israele non permette l’ingresso del materiale necessario ad affrontare l’inverno di Gaza. Il freddo e le piogge stanno arrivando ma gran parte della popolazione palestinese rimane senza un rifugio né una protezione che sia appena adeguata. Nove agenzie umanitarie internazionali si sono viste negare 23 richieste per quasi 4mila bancali. Milioni di kit termici, tende, biancheria, coperte sono bloccati in Egitto, in Israele e in Giordania mentre circa 260mila famiglie, quasi 1,5 milioni di persone, rimangono senza un riparo sicuro.

«ABBIAMO POCHISSIME possibilità di proteggere le famiglie dalle piogge invernali e dal freddo – ha dichiarato ieri Angelita Caredda, direttrice del Consiglio norvegese per i rifugiati (Nrc) in Medio Oriente e Nord Africa – A più di tre settimane dall’inizio del cessate il fuoco, Gaza avrebbe dovuto ricevere un’ondata di materiali di rifugio, ma solo una frazione di ciò che è necessario è entrata. La comunità internazionale deve agire ora per garantire un accesso rapido e senza ostacoli». L’Nrc guida, in Palestina, lo Shelter Cluster, un coordinamento di agenzie internazionali che provvede al rifugio delle popolazioni sfollate.

In 21 casi su 23 Tel Aviv ha affermato che le organizzazioni non erano autorizzate a fornire aiuti umanitari, anche quando erano regolarmente registrate in Israele. Ma anche le associazioni a cui è «concessa» la consegna sono costrette ad attendere settimane, a volte mesi, sottoposte a meccanismi dalla gestione «opaca», con fermi, ritardi e cambiamenti continui e immotivati. Una delle associazioni che fa parte dello Shelter Cluster, nonostante rispondesse a tutti i criteri unilateralmente stabiliti da Tel Aviv, è stata costretta ad attendere più di sette mesi per uno sdoganamento. «Nessuna famiglia dovrebbe affrontare l’inverno senza protezione – ha aggiunto Caredda – Ogni giorno di ritardo mette a rischio delle vite umane».

VITE CHE CONTINUANO a spegnersi sotto i bombardamenti israeliani a Gaza. Anche ieri l’esercito ha dichiarato di aver ucciso due persone nel centro della Striscia. La motivazione ufficiale è sempre la stessa: chi attraversa la «linea gialla» è considerato un pericolo per l’esercito. Ma il confine tra la metà (e più) occupata dai militari e il resto di Gaza non è altro che una linea tracciata su una mappa. Quella controllata dall’esercito è un’area da distruggere con le demolizioni, da cui partono droni e colpi di artiglieria. Dove in superficie i membri di Hamas hanno il permesso di cercare i corpi degli ostaggi israeliani, mentre sottoterra duecento combattenti provano a negoziare un ritiro sicuro.

Li vorrebbe ammazzare tutti il ministro israeliano delle finanze Bezalel Smotrich. In un’intervista al Jerusalem Post ha dichiarato che è necessario «eliminarli» e che i militari «stanno per ucciderli nei tunnel». Anche il ministro della difesa, Israel Katz, ha detto che «l’esercito sta lavorando per distruggere i tunnel ed eliminarli senza alcuna limitazione».

Tuttavia, il capo di stato maggiore dell’esercito, Eyal Zamir, ha aperto a una possibilità. A quanto pare è proprio nei tunnel nei pressi di Rafah che si trova il corpo di Hadar Goldin, soldato israeliano ucciso e rapito da Hamas il primo agosto 2024. Nei quattro giorni successivi al rapimento, Israele lanciò una violenta azione militare su Rafah che portò alla morte di circa 150 persone, tra cui molti bambini.

Zamir ha dichiarato ieri che rimane in vigore l’ordine di uccidere tutti i combattenti e di distruggere le infrastrutture, aggiungendo, però, secondo Ynet News, che un passaggio sicuro potrebbe essere garantito, senza armi, in cambio della consegna del corpo di Goldin. In seguito alla fuga di notizie, i vertici militari hanno precisato di non avere notizie certe in merito e che al momento si tratterebbe solo di voci non verificate.

Intanto, nella Cisgiordania occupata non si fermano le violenze. Quotidianamente vengono registrate e diffuse decine di violazioni e soprusi compiuti dai coloni e dai militari israeliani a danno della popolazione palestinese. Ieri una coppia di anziani coniugi è stata ferita dai coloni a sud di Hebron.

NEL VILLAGGIO di Umm al-Rihan, a ovest di Jenin, i soldati hanno attaccato una fattoria, uccidendo più di 7mila polli d’allevamento. Anche a Wadi Fukin, nei pressi di Betlemme, è stata distrutta una struttura agricola. L’esercito abbatte case ed edifici di proprietà palestinese in terra occupata, dichiarando che mancano di «permessi».

Eidu Suleman, abitante e fotoreporter di Umm al-Kheir, a Masafer Yatta, ci ha detto che «la storia della demolizione delle case rappresenta uno dei modi, eticamente mascherati, per rimuovere i palestinesi dalla società, dalla loro terra e poi darla ai coloni israeliani per espandere i loro insediamenti».

Proprio a Umm al-Kheir, ieri, si è tenuta una conferenza stampa dei residenti, in seguito all’ordine israeliano di demolizione per 14 abitazioni. Khalil Hathaleen, il fratello di Awdah Hathaleen, l’attivista pacifista ucciso da un colono israeliano (che rimane a piede libero), ha dichiarato: «Questa non è una demolizione, è un atto di espulsione». Nel 1993 persino la sentenza di un tribunale israeliano confermò che i terreni sono appartengono ai residenti palestinesi. «Abbiamo tentato tutte le strade legali – ci spiega Suleman – I governi mondiali devono fare qualcosa per proteggere le nostre case».

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