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Trump attacca i giudici dell’Aja: sanzioni per fermare le inchieste su Gaza

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Politica Estera 

21/08/2025

da Pagine esteri

Redazione

Colpiti magistrati impegnati nelle indagini sui crimini di guerra, mentre Washington e Tel Aviv cercano di bloccare i mandati di arresto internazionali

L’amministrazione Trump ha annunciato nuove sanzioni contro funzionari della Corte Penale Internazionale, colpendo direttamente giudici e procuratori impegnati nelle indagini su crimini di guerra. Le misure, rese pubbliche il 20 agosto 2025, comprendono congelamento dei beni, restrizioni finanziarie e divieto di ingresso negli Stati Uniti. A esserne interessati sono due giudici, Kimberly Prost e Nicolas Guillou, e due procuratori, Nazhat Shameem Khan e Mame Mandiaye Niang. Il Tribunale dell’Aja ha reagito con fermezza, denunciando un «flagrante attacco alla sua indipendenza» e definendo il provvedimento «un affronto alle vittime dei crimini».

La decisione di Washington si colloca in un contesto politico preciso: proteggere sé stessa e l’alleato israeliano dalle inchieste che toccano la condotta delle operazioni militari a Gaza e i mandati di arresto internazionali già emessi nei confronti di Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant. Israele ha espresso immediato sostegno alla mossa americana, mentre l’Onu, diversi governi europei e numerose organizzazioni per i diritti umani hanno condannato il provvedimento, definendolo un atto intimidatorio che mina alla radice il funzionamento della giustizia internazionale.

Le sanzioni non colpiscono generiche istituzioni, ma persone in carne e ossa, rendendo evidente la volontà di intimidire i magistrati incaricati delle indagini più delicate. Non si tratta dunque di una semplice espressione di dissenso politico, bensì di una strategia di pressione diretta: punire i singoli funzionari significa lanciare un messaggio chiaro a tutta la Corte, scoraggiando chiunque intenda portare avanti procedimenti giudiziari contro potenze occidentali o loro alleati.

Non è un episodio isolato. Già nei mesi scorsi Trump aveva firmato un ordine esecutivo che autorizzava misure punitive contro il personale della CPI, accusato di condurre “azioni infondate” contro Stati Uniti e Israele. Ogni passo del Tribunale verso indagini su Gaza o su altri teatri di guerra riconducibili a Washington è stato seguito da minacce o rappresaglie. È la conferma di una linea coerente: neutralizzare la giustizia internazionale ogni volta che mette in discussione l’impunità delle grandi potenze.

La logica di fondo è quella del ricatto. Attraverso le sanzioni, gli Stati Uniti trasmettono alla CPI un messaggio inequivocabile: procedere contro Israele o contro Washington avrà conseguenze personali e materiali. Così la promessa di un tribunale imparziale, creato per garantire giustizia universale, si trasforma in un’istituzione vulnerabile alle pressioni politiche ed economiche. Le vittime di crimini di guerra, in particolare quelle che chiedono giustizia per Gaza e per le denunce di genocidio, si ritrovano di fronte a un muro costruito non con le armi ma con strumenti di potere finanziario e diplomatico.

Le reazioni internazionali riflettono la gravità della situazione. Le Nazioni Unite hanno denunciato un pericoloso precedente, mentre governi europei e ONG hanno parlato di una violazione diretta del principio di autonomia giudiziaria. La CPI stessa ha ricordato che il suo mandato è quello di garantire che i crimini più gravi non restino impuniti, e che colpire i suoi funzionari significa compromettere la speranza di giustizia per milioni di persone.

Il nodo è politico e giuridico allo stesso tempo. Stati Uniti e Israele non hanno mai aderito alla CPI, ma reagiscono con durezza ogni volta che i procedimenti riguardano i loro crimini. Le sanzioni diventano allora un’arma di impunità: non basta sottrarsi alla giurisdizione del Tribunale, bisogna anche impedire che esso possa operare. Il risultato è un indebolimento strutturale della giustizia internazionale, ridotta a strumento piegato agli equilibri di potere.

Ciò che emerge è un quadro cupo: mentre a Gaza le denunce di genocidio attendono di essere valutate, i magistrati incaricati di portarle avanti vengono puniti e intimiditi. È un rovesciamento paradossale: invece di proteggere le vittime, il sistema internazionale protegge gli autori delle violenze. E chi prova a fare luce si trova esposto a misure punitive che cancellano la distinzione tra politica e diritto.

Le sanzioni del 20 agosto non sono quindi un semplice episodio della politica estera americana, ma il segno di una deriva che rischia di rendere irreversibile l’impunità globale. Se la CPI viene messa a tacere proprio quando indaga sui crimini più gravi, il principio di giustizia universale si svuota. Per le vittime, soprattutto quelle di Gaza, resta solo l’ennesima conferma che la loro voce pesa meno delle alleanze strategiche e militari.

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