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Trump detta la pace: Striscia appaltata, palestinesi prigionieri

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Politica estera 

30/09/2025

da Il Manifesto

Chiara Cruciati

L’emiro di Gaza Il presidente Usa annuncia il via libera di Netanyahu al suo piano: a Tel Aviv la «sicurezza» dei confini, a lui e Blair il governo dell’enclave

Gaza conta, Gaza vale: un premio Nobel, affari multimiliardari di ricostruzione, il flusso di denaro che il Golfo inietta nell’economia statunitense, una stabilità regionale camuffata da pace che non prevede liberazione.

Sta qua il senso dietro il piano di venti punti che ieri Donald Trump ha estorto a Benyamin Netanyahu alla Casa bianca in quello che il presidente Usa ha definito «uno dei giorni più belli della storia della civiltà, un giorno storico non solo per Gaza ma per l’intera regione» perché lui, Donald Trump, ha «risolto tutto, si chiama pace perenne in Medio Oriente».

NEL DISCORSO-FIUME con cui ha aperto la conferenza stampa congiunta con il primo ministro israeliano, Trump ha annunciato il via libera di Tel Aviv al piano della Casa bianca. Dentro c’è molto: ci sono la liberazione di tutti gli ostaggi israeliani in 72 ore e il cessate il fuoco a Gaza, c’è l’ingresso degli aiuti umanitari gestiti dall’Onu, c’è l’amnistia per i membri di Hamas «che rinunciano alla violenza», c’è la negazione della pulizia etnica («residenti liberi di stare o di andare e tornare) e c’è soprattutto la cornice più generale, un futuro di neo-colonizzazione mascherata.

Ha un nome, Board of Peace, il Consiglio della Pace; ha un presidente, Donald Trump che però ci tiene a precisare che non lo ha chiesto lui, hanno insistito gli altri; c’è un obiettivo, togliere ai palestinesi il controllo del proprio futuro e della ricostruzione, un affare troppo succoso per lasciarlo marcire. Al suo fianco, ci saranno «figure internazionali» come l’ex premier britannico Tony Blair, noto distruttore di paesi altrui. Ora, ha detto Trump tra un attacco a Biden e uno alla «corrotta» Onu, la palla è nel campo di Hamas: se si tira indietro, Washington sosterrà la reazione israeliana, qualunque essa sia.

NETANYAHU ne approfitta ed entra a gamba tesa, a differenza di Trump è un politico e sa come si gioca: «Sosterrò il tuo piano per porre fine alla guerra a Gaza», dice, perché ricalca «le priorità del governo israeliano». Ovvero la liberazione di tutti gli ostaggi, il disarmo di Hamas e la demilitarizzazione di Gaza, ma anche la permanenza dell’esercito israeliano ai suoi confini («responsabile della sicurezza per il futuro») e un’amministrazione pacifica che escluda tanto Hamas quanto l’Autorità nazionale palestinese. Insomma, una Gaza che libera non lo sarà mai.

È LA PRIMA CREPA: l’Anp è nel piano Usa come c’è il percorso verso la statualità palestinese. Ma per Bibi sono linee rosse: c’è solo una via per fargli digerire l’Anp, che si trasformi radicalmente, che rinunci alla Corte penale e alla Corte internazionale e che riconosca lo stato di Israele (già fatto, nel 1993). Sono le mine che Netanyahu semina sul percorso, quello immediato e quello futuro, le mani che si tiene slegate. In attesa della risposta ufficiale, ieri funzionari di Hamas ribadivano di non aver ricevuto ancora il piano e, in ogni caso, di ritenere il disarmo una richiesta irricevibile in assenza di uno stato.

NELLE ORE PRECEDENTI al quarto incontro in nove mesi tra i due leader, si sono susseguite dichiarazioni e indiscrezioni, specchio delle aspettative per la rottura di uno stallo insopportabile. Trump ha parlato con l’emiro del Qatar, Tamim Al-Thani, ha riportato Axios: Doha, ancora furiosa per il raid israeliano che il 9 settembre ha tentato di decapitare i vertici di Hamas sul proprio territorio, gli ha ricordato le preoccupazioni del Golfo. Ed ecco il colpo di scena: durante l’incontro nello Studio ovale, Netanyahu ha chiamato il primo ministro del Qatar per esprimere «profondo rammarico» per le bombe su Doha e la violazione della sovranità del paese e per promettere che «Israele non condurrà più attacchi simili».

UNA PRIMA ASSOLUTA figlia di una frustrazione che non è solo araba: secondo una fonte del governo Usa citata da Axios, «tutti, e intendo tutti, sono esasperati da Bibi». Tutti, compreso Trump, che da un orecchio sente i suoi consiglieri ricordargli i danni in credibilità che gli arreca l’incapacità di tenere a bada l’amico israeliano e dall’altro gli alleati arabi, finanziatori della sua economia nazionale e personale. Domenica l’inviato Steve Witkoff ha trascorso due ore nella camera di albergo di Netanyahu a Washington per assicurarsi il sì al piano.

NETANYAHU SI LASCIA le mani libere ma è comunque stretto all’angolo. Anche in casa non se la passa bene, schiacciato tra le proteste delle famiglie degli ostaggi che implorano un accordo e l’ultradestra che non intende stringerne nessuno. Non solo gli alleati di coalizione (Smotrich ha elencato le sue linee rosse: presenza dell’esercito israeliano lungo il confine, libertà di agire al suo interno e assenza dell’Anp dall’orizzonte futuro), ma anche il movimento dei coloni che ha visto nel 7 ottobre l’opportunità di una vita, quella “persa” nel 1948: ieri Yossi Dagan, capo del consiglio regionale della Samaria (il rappresentante dei coloni nel nord della Cisgiordania occupata) si è detto insoddisfatto dell’incontro di domenica con il premier perché non avrebbe ottenuto rassicurazioni sull’annessione della West Bank.

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