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Trump vs Maduro. Marines e navi da guerra all’attacco del Venezuela per uccidere

Trump vs Maduro. Marines e navi da guerra all’attacco del Venezuela per uccidere

Politica estera

03/09/2025

da Left

Claudia Lemes Dias

Gli Stati Uniti aprono un nuovo fronte di guerra coloniale

Prosegue in Venezuela, nella caserma dove si trova la tomba di Hugo Chávez, il processo di arruolamento alla Milicia Nacional Bolivariana, braccio dell’esercito creato nel 2008 dall’ex presidente scomparso.

Iniziata il 23 agosto, la chiamata alle armi avviene a fronte dell’enorme dispiegamento di forze militari statunitensi, già approdate in acque internazionali, alle coste del Paese. In merito ai reportage della stampa sudamericana, chiamati da Maduro a prepararsi per l’eventuale arrivo degli 8.000 Marines spediti dagli Stati Uniti, ufficialmente per operazioni contro il narcotraffico, ad arruolarsi sono perlopiù civili di ogni età, che però (dettaglio non trascurabile) non hanno mai impugnato un’arma.

Secondo quanto dichiarato da Maduro, l’obiettivo è quello di schierare circa 4,5 milioni di miliziani “in difesa della patria”, munendo contadini e operai di fucili e missili, “per difendere il territorio, la sovranità e la pace del Venezuela”. La replica di Trump non si è fatta attendere. La mattina del 3 settembre ha comunicato di aver dato l’ordine di affondare una nave al largo della costa venezuelana adducendo come motivazione che a bordo vi fossero “narcoterroristi”. Il presidente Usa ha anche affermato che il cartello a cui erano affiliati gli 11 uomini dell’equipaggio uccisi nell’attacco operi “sotto il controllo di Nicolas Maduro, responsabile di omicidi di massa, traffico di droga, traffico sessuale e atti di violenza e terrorismo negli Stati Uniti e nell’emisfero occidentale”.

“Ci dobbiamo preparare al peggio? Sempre. È una nostra condizione per affrontare qualsiasi cosa accada, per quanto difficile possa essere”, ha affermato il Ministro dell’Interno, nonché Segretario generale del Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV), Diosdado Cabello, nel corso del suo programma settimanale Con el mazo dando, trasmesso dalla tv di Stato. La platea era composta prevalentemente da militari, civili in abiti mimetici, oppure con bandiere e simboli del Partito. Gli esperti registrano che l’eccessivo dispiegamento di Forze militari, schierate dal presidente USA, sarebbero tuttavia incompatibili con il proposito di contrastare il traffico di sostanze stupefacenti verso gli Stati Uniti; in tal senso, navi equipaggiate con decine di missili BGM-109 Tomahawk a nulla servirebbero, oltre a intimidire il regime.
Il numero di Marines coinvolti nell’Operazione, al momento, ammonta a 4.500 uomini, in procinto di raddoppiare, senza contare le navi da comando e supporto anfibie USS Fort Lauderdale e USS San Antonio, la portaerei USS Iwo Jima e un’altra equivalente, la USS Boxer, che trasporterebbe dei caccia, in arrivo proprio nelle prossime ore. L’aggiunta di un sottomarino nucleare, inoltre, farebbe presagire l’effettivo tentativo di un cambio di regime con la forza, mettendo in subbuglio l’intera regione.

In questo quadro, la portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, si è rifiutata di rispondere alle domande sul vero scopo delle azioni militari statunitensi nei Caraibi.
Ha ribadito, però, che il governo Trump non riconosce Maduro come legittimo presidente del Venezuela, classificandolo “latitante dalla giustizia statunitense.
“Quest’azione, imprudente e irresponsabile, mette a rischio non solo il Venezuela, ma tutti i Paesi dell’America Latina e dei Caraibi. Non è solo una minaccia per il nostro Paese, ma per tutti”, ha sottolineato l’ambasciatore venezuelano a Trinidad y Tobago, Álvaro Sánchez Cordero.
La possibilità di un’invasione imminente, e non solo di una semplice intimidazione, viene paventata anche dall’opposizione, dentro e fuori dal Paese. L’ex sindaco di Caracas, Antonio Ledezma, ad esempio, ha riferito all’emittente colombiana Blu Radio che gli Stati Uniti non dispiegano navi da guerra al largo delle coste caraibiche perché i Marines “vadano a vedere i delfini”.

Sfuggito al regime di Maduro, Ledezma, che vive a Madrid, appartiene alla lunga schiera degli oppositori arrestati senza alcun capo di accusa, come il cittadino italiano Alberto Trentini, cooperante veneziano. Denunciato a più riprese da Human Rights Watch e Amnesty International, il regime di Maduro mantiene nelle sue carceri ben 816 prigionieri politici; stando ai dati dell’ONG Foro Penal, vi sono 720 uomini e 96 donne, di questi, 676 sono civili e 170 militari, mentre la sorte di 45 detenuti è sconosciuta. Quattro di loro sono adolescenti, di età compresa tra 14 e 17 anni, arrestati durante la repressione delle proteste seguite alle elezioni presidenziali del 28 luglio 2024. Per la maggior parte, gli oppositori sono chavisti, anche sindacalisti, critici del regime, dunque accusati di “terrorismo” e “tradimento della patria”, ma senza alcuna prova.

Gli USA e la nuova escalation
Il 7 agosto, l’amministrazione di Donald Trump ha aumentato a 50 milioni di dollari la ricompensa per informazioni che portino alla cattura di Maduro, accusato di guidare il cosiddetto Cartel de los Soles, termine coniato dalla stampa, che si riferisce alle stelle dorate indossate sulle spalline dei generali della Guardia Nazionale Bolivariana (GNB). Fu utilizzato per la prima volta nel 1993, quando due generali della guardia, il capo della squadra antidroga Ramón Guillén Dávila e il suo successore, Orlando Hernández Villegas, furono indagati, processati, ma poi assolti per traffico di sostanze stupefacenti.
Per Jeremy McDermott, co-fondatore e co-direttore di InSight Crime, una fondazione che studia la criminalità organizzata nelle Americhe da decenni, Maduro non sarebbe il capo dell’organizzazione, perché non si tratta di un gruppo con una gerarchia definita, bensì di una “rete di reti”, che facilita il narcotraffico e ne trae profitto, composta da membri dei più diversi strati militari e politici del Venezuela.
Dello stesso avviso è Phil Gunson, analista senior dell’International Crisis Group. “Non esiste nulla del genere, quindi Maduro non può certo essere il loro capo” dichiara l’esperto. Secondo le sue fonti, ciò che emerge in Venezuela è la “complicità tra individui legati al potere e alla criminalità organizzata”, eppure “non sono mai state presentate prove dirette e incontrovertibili” di un’organizzazione criminale “tipica”, come quelle presenti in Messico o Colombia, con una gerarchia scrupolosa.

Per il governo degli Stati Uniti, invece, Nicolás Maduro e il suo vice, Diosdado Cabello, ne sarebbero i capi, responsabili perciò del diretto arruolamento di dipendenti statali e militari per distribuire sostanze stupefacenti in Europa e negli Stati Uniti. Oltre a questa equazione, che già di per sé è complessa, il Cartel de los Soles avrebbe siglato alleanze con gruppi armati illegali colombiani, come l’Ejército de Liberación Nacional (ELN), considerato uno dei gruppi di guerriglia più longevi dell’America Latina.
L’ELN opera principalmente nelle zone montuose e remote della Colombia, nonché al confine con il Venezuela, come Catatumbo (Norte de Santander), la regione del basso Cauca di Antioquia e il sud di Bolívar.

“Il Venezuela, ormai, è diventato uno Stato narco-terrorista, che persiste a collaborare con le FARC e l’ELN per inviare quantità record di cocaina dal Venezuela e dalla Colombia ai Cartelli messicani, che continuano a entrare negli Stati Uniti in volumi senza precedenti”: queste le parole del direttore della DEA, Terry Cole, il 21 agosto.
A gennaio, il presidente colombiano Gustavo Petro ha dichiarato lo “stato di emergenza” nella frontiera con il Venezuela a causa dell’intensificarsi della violenza nel delta del fiume Catatumbo. Gli scontri tra l’Esercito di Liberazione Nazionale (ELN) e il Fronte 33, un gruppo dissidente delle defunte Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC), hanno causato decine di morti, per non parlare di oltre 32.000 sfollati. A quel punto, Petro ha interrotto i colloqui di pace con l’ELN, classificandolo come gruppo criminale e terrorista.
In seguito, il governo colombiano ha schierato ben 300 unità delle Forze speciali al fine di neutralizzare gli scontri nella zona e contribuire a garantire la sicurezza dei civili. Ciononostante, la misura è stata ritenuta insufficiente dalle comunità e dai leader sociali, che l’hanno aspramente criticato nel corso di una visita. Giovedì scorso, Petro ha annunciato l’invio di 25.000 militari a Catatumbo, a seguito dei 15.000 militari già spediti da Maduro, subito dopo l’annuncio dell’invio di navi da guerra dagli Stati Uniti.
Colombia e Venezuela condividono un confine lungo e travagliato di oltre 2.200 chilometri.
Intervenendo durante una riunione di Gabinetto dedicata alle questioni di sicurezza, Petro ha sottolineato che gli Stati Uniti rischiano di provocare un disastro con il loro ultimo dispiegamento navale nei Caraibi. “Stanno trascinando il Venezuela in una situazione simile a quella siriana, con l’aggravante del coinvolgimento anche della Colombia”, disse.
Petro ha altresì sollevato lo spettro dello sfruttamento delle risorse, suggerendo che il dispiegamento militare statunitense è motivato dal controllo delle vaste riserve di petrolio e minerali del Venezuela. “Si approprierebbero delle ricchezze del sottosuolo e dei minerali, e questo significherebbe più morte che vita”, ha aggiunto.

La maggior parte del traffico di droga via mare arriva negli Stati Uniti attraverso il Pacifico, e non l’Atlantico, dove Trump ha schierato le navi statunitensi. L’Office on Drugs and Crime dell’ONU, nel documento intitolato Global Cocaine Report, del 2023, cita dati della stessa DEA statunitense a dimostrazione del fatto che il 74% della cocaina che approda in Nord America, proveniente dal Sud, viene trafficata attraverso il Pacifico; in più, gran parte della roba arriva attraverso i Caraibi clandestinamente.
In risposta alle manovre militari statunitensi, martedì 26 agosto, il Venezuela ha lanciato un appello all’ONU. Nello specifico, in un comunicato, il Ministro degli Esteri Yván Gil ha espresso la sua preoccupazione per le azioni intraprese dall’amministrazione Trump contro il Paese. In questo scenario, lo schieramento militare degli Stati Uniti “costituisce una grave minaccia alla pace e alla sicurezza regionali”, una decisione che contraddice l’impegno storico delle Nazioni “alla risoluzione pacifica delle controversie” ha puntualizzato.

Trump e il ritorno alla Guerra fredda: colpire il regime di Maduro per demarcare il territorio
Tra il 2018 e il 2019, la frequente presenza di aerei militari russi in Venezuela, per eseguire manovre militari a Caracas in caso di un eventuale attacco armato contro il Paese, aveva suscitato forti reazioni nel primo governo Trump. Mike Pompeo, l’allora Segretario di Stato, aveva definito l’operazione “uno scambio tra due governi corrotti che sperperano denaro pubblico.
In particolare, nel 2019, Trump aveva annunciato il sostegno degli USA a Juan Guaidó, il deputato di Estrema destra autoproclamatosi presidente del Venezuela, nonché forte sostenitore di un intervento militare statunitense nel Paese. Convinto di aver piazzato un suo fantoccio, il presidente statunitense aveva dichiarato l’apertura di “una nuova epoca in America Latina”, secondo cui, “nel Venezuela e in tutto l’emisfero occidentale”, il Socialismo sarebbe stato sepolto.

Il Consigliere per la sicurezza nazionale del primo governo Trump, John Bolton, aveva escluso l’ipotesi di un intervento militare per rovesciare Maduro, forse convinto che i militari, schierati a fianco del regime, avrebbero accolto l’ultimatum dato da Donald Trump alle Forze armate di Caracas, voltando le spalle al caudillo.
Dopo il fallimento del tentato golpe, Maduro non mancò di sottolineare il forte sostegno, anche militare, ricevuto dalla Russia. Così, il 5 luglio scorso, durante le celebrazioni per il Giorno dell’Indipendenza del Venezuela, il dittatore dichiarò che il suo governo avrebbe promosso lo sviluppo di sistemi missilistici e antimissile con l’aiuto di Putin. L’annuncio, non confermato però dalla Russia, è stato rafforzato da una parata, che ha esposto le attrezzature militari acquisite dal Cremlino, durante il boom petrolifero.
Fatto sta che, a oggi, il Venezuela detiene la più grande riserva di petrolio al mondo, con circa 303 miliardi di barili.

Secondo un rapporto pubblicato dall’ONG Transparency Venezuela, si è protratto il commercio di petrolio con la Russia, nonostante le sanzioni dell’Office of Foreign Assets Control (OFAC). Inoltre, la China Concord Resources Corp ha iniziato a sviluppare due giacimenti petroliferi venezuelani, pianificando di investire più di 1 miliardo di dollari in un progetto che produrrà 60.000 barili di petrolio greggio al giorno, entro la fine del 2026. In tutto ciò, i dazi del 25% applicati dagli USA a chi compra petrolio o gas dal Venezuela sono stati sostanzialmente ignorati dai Paesi appartenenti al BRICS.
In questo contesto, la posizione del Brasile sulla delicata situazione è di massima cautela.
Nonostante il governo Lula non abbia riconosciuto la legittimità della rielezione di Maduro, vi è comunque il fondato timore che l’instabilità politica e militare del vicino si aggravi, provocando l’aumento del flusso migratorio verso il Brasile e la Colombia, due dei Paesi più colpiti dalla grave crisi umanitaria ai confini con il Venezuela.
Finora, però, il governo Lula non ha reso dichiarazioni ufficiali riguardo l’escalation tra i due Paesi. Anche l’Uruguay e il Cile, due Paesi a guida progressista, che non esitano a condannare il regime di Maduro, non si sono pronunciati. Argentina, Paraguay, Equador e Peru, guidati da partiti di destra, hanno etichettato il Cartel de los Soles un’organizzazione terrorista, affinché potessero facilitare un’eventuale collaborazione statunitense, con conseguenze imprevedibili per l’intera America Latina.

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