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«Uguaglianza», un progetto economico alternativo

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11/09/2025

da Il Manifesto

Emiliano Brancaccio

Francia. Scandita bene, agitata come un’arma dialettica, quella parola è in primo luogo contro le politiche di privilegio di Macron

«A causa di una rivolta sociale il Museo d’Orsay è chiuso» e i turisti non potranno ammirare le opere di Courbet. Per questa ironica serrata, il grande pittore rivoluzionario avrebbe guardato con simpatia il movimento che ieri ha paralizzato Parigi al grido «blocchiamo tutto».

Alcuni distruttori senza criterio, certo. Ma soprattutto giovani, tantissime donne, molti immigrati, e drappi rossi a volontà.

Si dice che il movimento sia nato dalle file della destra sovranista attiva sui social. Sarà, ma ieri si è vista poco. I «bloccanti», li chiameremo così, sono portatori di un linguaggio sovversivo in cui il termine «nazione», in senso repubblicano e molto francese, di certo non manca. Ma la parola chiave dei rivoltosi è un’altra: «Uguaglianza». Scandita bene, agitata come un’arma dialettica, in primo luogo contro le politiche di privilegio di Macron, alle quali i post-fascisti che siedono all’Assemblea nazionale vorrebbero dare sostegno più apertamente di quanto possano oggi ammettere.

La protesta è rivolta in primo luogo contro il programma anti-sociale che Macron sta cercando di imporre al paese. Oltre una quarantina di miliardi di tagli, da selezionare alla solita maniera: blocco delle pensioni e delle prestazioni sociali, stop alle assunzioni statali, scasso della sanità pubblica e, guarda caso, abolizione della festa dell’8 maggio per la vittoria contro il nazifascismo.

Bardella e gli altri neri in parlamento avrebbero anche voluto abboccare. Ma per adesso gli tocca inscenare la vecchia farsa della destra di opposizione, sociale e rivoltosa. Sappiamo di che giravolta saranno capaci se andranno al governo. Meloni insegna.

La dottrina dei sacrifici viene giustificata al solito modo: il debito pubblico è troppo alto e lo stato francese è l’ultimo, grande spendaccione d’Europa. Bisogna risanare, ripulire, ridisciplinare l’inefficiente apparato pubblico. Prima di esser cacciato via, il dimissionario Bayrou aveva pure riesumato il vecchio motto thatcheriano: non c’è alternativa.

Se però guardiamo bene i dati, la realtà è un po’ diversa. La Francia ha un debito pubblico situato intorno al 115 percento del Pil. Più alto della Germania e della media europea. Ma più basso, per esempio, rispetto al 135 percento dell’Italia. Eppure la Francia è sotto tiro, l’Italia al momento lo è meno. Perché?

Il motivo risiede in un fatto che non è quasi mai salito all’onore delle cronache ma ormai è ben noto agli economisti, critici e persino mainstream. Il fatto è che la fragilità finanziaria di un paese dipende non tanto dall’andamento del debito pubblico quanto piuttosto dall’andamento del debito verso l’estero, sia pubblico che privato. In altre parole, più che l’ammontare di finanziamenti che lo stato chiede ai privati, conta soprattutto la dimensione dei prestiti che lo stato e i privati chiedono ai creditori esteri, per finanziare le importazioni di merci in eccesso rispetto alle esportazioni. Insomma, la fragilità finanziaria non è semplicemente un problema di apparato pubblico spendaccione. È un problema, più grande, di capitalismo nazionale meno competitivo rispetto ai concorrenti.

Da questo punto di vista, la Francia è esposta verso l’estero per oltre il 20% del Pil. L’Italia, invece, non ha più questo problema. Non certo perché abbiamo risolto il problema competitivo del capitalismo nostrano. Ma per un motivo in fondo opposto: per anni abbiamo fatto talmente tanta austerity che i nostri redditi sono crollati e quindi anche le nostre importazioni di merci sono precipitate, al punto che oggi il paese è creditore netto verso l’estero. Deindustrializzato, impoverito, ma proprio per questo creditore.

In un certo senso, la Francia è oggi chiamata a seguire proprio la «dottrina italiana» che fu del governo Monti. Se così andasse, inizierebbe la definitiva erosione dell’ultimo capitalismo concorrente con quello tedesco. Una germanizzazione compiuta dell’Europa a spese, in primo luogo, delle lavoratrici e dei lavoratori francesi.

Il problema di chi vorrà davvero accogliere le istanze dei «bloccanti» sta qui.

Prima che venga represso, bisogna trasformare il vento di rivolta che attraversa le piazze francesi in un progetto generale alternativo di politica economica. Una soluzione che diventi ipotesi alternativa anche per l’Europa arcigna e guerrafondaia dei giorni nostri.

Le soluzioni tecniche esistono, a partire dal blocco della spesa militare e delle fughe di capitali. Può funzionare, a una condizione. Il baricentro intorno al quale edificare il nuovo deve essere l’uguaglianza, più che la nazione. Così si smascherano i post-fascisti, così si fa egemonia. I «bloccanti» danno la linea.

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