31/10/2025
da Il Manifesto
Il disegno di legge sull’ordinamento della giustizia è stato approvato violando lo spirito, ma anche la lettera della nostra Costituzione. Per la prima volta nella storia della nostra Repubblica, infatti, i quattro passaggi parlamentari non sono serviti assolutamente a nulla: non hanno permesso alcuna discussione autonoma dei parlamentari.
I parlamentari hanno votato infatti per disciplina di partito e vincolo di maggioranza senza poter esercitare il loro libero mandato. Il testo approvato in via definitiva è esattamente lo stesso approvato dal Consiglio dei ministri nel maggio del 2024, nei quattro passaggi in Parlamento non ha subito alcuna modifica. L’andamento della discussione (si fa per dire) è stato paradossale. Vista la negazione di ogni possibilità di emendare il testo l’opposizione si è limitata a fare ostruzionismo, iscrivendo tutti i suoi parlamentari a parlare pur se consapevole che – visti i numeri – a nulla sarebbero potute valere le proprie ragioni. Mentre la maggioranza non ha ritenuto neppure utile discutere del suo testo per dare conto del proprio operato.
Nemmeno le poche proposte migliorative – o ritenute tali – che alcuni parlamentari di maggioranza avevano in mente e che avrebbero potuto ben essere accolte senza stravolgere l’impianto originariamente definito sono state considerate e i proponenti hanno ritirato o comunque non discusso i loro stessi emendamenti. Tant’è che solo alcune dichiarazioni ai giornali ci hanno fatto conoscere le opinioni concorrenti di alcuni senatori o deputati. Tra questi autorevoli componenti che hanno espresso fuori dai denti – ovvero fuori dalla sede parlamentare – la propria opinione. Così apprendiamo che il senatore Pera ha votato a favore della riforma «per ammirazione» della presidente del Consiglio. L’ammirazione è certamente un nobile sentimento, ma non rientra tra le ragioni che dovrebbero indurre un parlamentare a far valere la sua responsabilità politica. Poi leggiamo che persino il presidente del Senato ritiene che si stia giocando una partita che «non vale la candela».
Anziché alla buvette si poteva utilizzare l’aula per dichiarazione così impegnative e perplesse. Insomma, una riforma costituzionale decisiva per il futuro della nostra democrazia approvata a bocche cucite. Ormai per cambiare la costituzione si utilizzano maniere ben più spicce e decisioniste che non per l’ordinaria attività legislativa. Almeno i disegni di legge sono discussi in commissione, poi in assemblea, e qualche modifica è permessa. Persino nei casi sempre più frequenti in cui è il governo a proporre il decreto-legge (dunque ponendo il parlamento difronte ad un dato di fatto e limitando il suo potere a quello di conversione), l’emendabilità è assicurata. Tant’è che, eventualmente, ci si lamenta della non omogeneità delle modifiche introdotte. Ora, invece il testo diventa intoccabile. E non c’è neppure bisogno di porre la questione di fiducia tant’è ferrea la disciplina imposta ai parlamentari di maggioranza.
Ciò è tanto più grave se si pensa alla ratio che è propria delle norme che la costituzione espressamente prevede in materia di sua revisione. L’articolo 138 prevede una doppia lettura dei due rami del parlamento, una maggioranza qualificata in seconda lettura e un referendum eventuale di natura oppositiva qualora, pur se superata la maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, non si sia però raggiunto il consenso dei due terzi dei nostri rappresentanti. Al di là di ogni tecnicismo mi sembra del tutto chiara la ragione di fondo che sostiene questo procedimento.
Se una legge ordinaria può essere il frutto di una maggioranza contingente, quando si discute e si vuole cambiare la costituzione di tutti è necessario pensarci bene, ricercare il consenso più ampio (le maggioranze qualificate), permettere ai nostri rappresentanti di tornare sui propri passi (la doppia lettura), non adottare procedure semplificate (lo ribadisce anche l’articolo 72). Un modo di pensare alla legge suprema e alla sua revisione oramai stravolto. Pietro Calamandrei, com’è noto, enfatizzava questa prospettiva sostenendo che il governo non dovesse metter bocca, anzi uscire dall’aula quando si discute di costituzione («i banchi del governo devono rimanere vuoti»), ora invece a uscire dall’aula sono i parlamentari.
Ci rimane un’ultima possibilità, l’ultima garanzia che la costituzione ha previsto e che il governo non ha potuto violare, ma sta comunque cercando di stravolgerne il senso. Il referendum che nel sistema costituzionale è indicato come lo strumento attraverso il quale una minoranza (un quinto dei membri di una camera o cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali) può opporsi alla decisione della maggioranza parlamentare. Ora invece lo si vuole costringere entro la logica plebiscitaria di un governo che tende a sterilizzare ogni possibile messa in discussione. Non più indetto da chi vuole salvaguardare l’assetto costituzionale vigente, ma da chi lo vuole cambiare. La natura oppositiva, si trasforma demagogicamente in una approvativa: la richiesta di un plebiscito, un’ulteriore richiesta di consenso passivo da parte di una moltitudine plaudente.
Chi ha avuto la maggioranza in parlamento non ha nessuna ragione di chiedere al popolo se acconsente: dopo tre mesi, in assenza di richiesta di referendum che è solo «eventuale», la legge costituzionale approvata – seppure nel modo indecente di cui s’è detto – entra in vigore. Spetta allora a chi si oppone alla riforma non solo attivarsi per far valere le proprie ragioni, ma anche per ristabilire gli equilibri violati della procedura della revisione costituzionale, ricordano che anche la forma è sostanza.
È venuto il momento – ora o mai più – di cominciare a discutere seriamente e nel merito di una riforma che opera contro la giustizia, ma anche contro la ratio della costituzione, mettendo da parte la prosopopea della attuale maggioranza di governo, che ha annunciato per bocca di Giorgia Meloni di ritenere intollerabile il controllo dei giudici e di voler utilizzare la riforma costituzionale della giustizia, ma anche la prossima sulla corte dei conti, per impedire che dei giudici nell’esercizio delle loro funzioni possano fermare l’azione che si vuole senza freni del governo. È necessario tornare a riflettere criticamente sui dati reali per recuperare l’equilibrio costituzionale tra i poteri.


