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Un Parlamento che scrive poco e approva meno

Un Parlamento che scrive poco e approva meno

Politica Italiana

17/10/2025

da La Notizia

Giulio Cavalli

In tre anni solo il 6% delle proposte è diventato legge. I decreti del governo Meloni hanno sostituito la dialettica parlamentare

A tre anni dall’inizio della legislatura, l’Italia ha un Parlamento che legifera sempre meno e ratifica sempre di più. I dati diffusi da Openpolis mostrano che su 3.739 disegni di legge presentati, solo 205 sono stati approvati e appena 149sono entrati effettivamente in vigore: appena il 6% delle proposte.
La maggioranza delle norme nasce direttamente dal governo: il 74% è di iniziativa dell’esecutivo, solo il 25% dei parlamentari. Il potere legislativo è ormai concentrato nelle mani di Palazzo Chigi, mentre le Camere restano l’ultima tappa formale di un percorso già scritto.

A confermare questa tendenza è la crescita dei decreti-legge: il 37,4% delle leggi approvate è frutto di conversioni di decreti, cioè testi imposti per via d’urgenza e approvati quasi sempre sotto la minaccia della fiducia. Solo il governo Letta, nel 2013, aveva fatto un uso più massiccio di questo strumento, ma in un contesto di crisi istituzionale e di governo di transizione. Meloni lo ha reso un metodo ordinario di governo.

Fiducia e deleghe, l’esecutivo al comando

Dal 2022 a oggi sono stati approvati 3.799 emendamenti, di cui 3.480 in commissione e 319 in Aula. Un numero che potrebbe suggerire vitalità parlamentare, ma che nasconde un paradosso: la media di emendamenti approvati per decreto-legge è crollata da 46 nella scorsa legislatura a 30 nell’attuale.
Openpolis spiega la ragione con chiarezza: il governo Meloni «ha fatto maggiore ricorso alla questione di fiducia, che limita la possibilità dei parlamentari di presentare emendamenti». In altre parole, l’Aula discute meno non per disciplina, ma perché le regole la zittiscono.

A questo si aggiunge la crescita delle leggi delega, oggi al 10,3% del totale delle leggi approvate. Il Parlamento affida così al governo il potere di scrivere norme su temi centrali come fisco, intelligenza artificiale, salario minimo o “nucleare sostenibile”. Una scelta che sposta il cuore della decisione politica fuori dalle Camere, riducendone il ruolo a cornice giuridica delle scelte già assunte dall’esecutivo.

Gruppi stabili, dialettica spenta

L’analisi di Openpolis sui gruppi parlamentari conferma una stabilità apparente: 59 cambi di gruppo in tre anni, contro i 464 della scorsa legislatura e i 569 della precedente. Una riduzione drastica, che viene letta come segno di compattezza della maggioranza, ma che coincide con una minore libertà di movimento interno. Al Senato, la riforma del regolamento prevede sanzioni economiche per chi cambia gruppo, e la pressione dei vertici si fa sentire.

Alla Camera, Fratelli d’Italia guida con 116 deputati, seguita da Partito Democratico (70), Lega (65), Forza Italia(52), Movimento 5 Stelle (49), Alleanza Verdi e Sinistra (10), Noi Moderati (9) e Italia Viva (6). Una maggioranza numerica solida che però coincide con un Parlamento sempre più monocolore: la dialettica si consuma fuori, nei talk show o sui social, non nelle aule legislative.

Le presenze alle votazioni elettroniche restano al 69,6%: un dato stabile rispetto al passato, ma rivelatore. Il gruppo più presente alla Camera è Alleanza Verdi e Sinistra (79%), seguito da PD (74%) e Fratelli d’Italia (70,8%). In coda Italia Viva (59,8%), Forza Italia (59,2%) e Noi Moderati (46,9%). Al Senato, primeggia il Movimento 5 Stelle con l’83,7%. La costanza numerica non basta, però, a restituire spessore a un’istituzione sempre più svuotata di funzione.

Un potere spostato altrove

Il quadro tracciato da Openpolis non lascia spazio a interpretazioni: il governo Meloni è quello che, nelle ultime quattro legislature, ha utilizzato di più la decretazione d’urgenza e le deleghe legislative. Il Parlamento, di fatto, ratifica testi scritti altrove.
Il linguaggio della democrazia resta intatto — discussioni, fiducie, votazioni — ma il suo lessico è svuotato. Il principio dell’equilibrio dei poteri è diventato un rito formale. E la “stabilità” invocata dalla maggioranza ha finito per coincidere con il silenzio.

Non è solo una questione di numeri: è la trasformazione profonda di un’istituzione nata per discutere, oggi ridotta a timbrare.

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