10/10/2025
da Il Manifesto
LA «PACE» DI TRUMP. A prima vista, dopo questo genocidio, sembra ancora valido l’antico detto di Tacito: avete fatto il deserto e la chiamate pace
Una strana tregua. Sospeso tra il rilascio degli ostaggi e un ritiro israeliano da Gaza (solo su meno della metà della Striscia), il cessate il fuoco non è ancora cominciato davvero e già lo chiamano pace. Ma pur di compiacere Trump si dice di tutto. A prima vista, dopo questo genocidio, sembra ancora valido l’antico detto di Tacito: avete fatto il deserto e la chiamate pace.
Perché questo è, dopo 70mila morti, una Striscia di Gaza completamente distrutta, senza case, acqua, cibo, scuole e ospedali, con migliaia di palestinesi sotto tende di fortuna, affamati e ancora senza diritti riconosciuti. Perché questo è oggi il popolo palestinese, ridotto da questo accordo a una fantasmatica comparsa e che nessuno, né ora né in un futuro palpabile, pensa debba essere consultato.
Questa è, ma già lo sapevamo, la tregua dei colonialisti. L’ha imposta Trump e poteva arrivare con largo anticipo risparmiando migliaia di lutti e distruzioni. È una tregua che accogliamo con gioia perché salva delle vite ma anche con rabbia proprio perché siamo ben coscienti che poteva arrivare molto prima, anche più di un anno fa, per esempio, con il piano Biden affossato da Netanyahu, che della guerra si nutre per restare al potere. Ecco perché non possiamo parlare di pace: anche il più inesperto del Medio Oriente diffida di un accordo che lascia così grandi macerie umane e politiche.
Intanto è un’intesa che riguarda gli attori principali del mondo sunnita ma lascia fuori l’universo sciita, dall’Iran, al Libano, allo Yemen, che per decenni è stato l’anima e il finanziatore dell’”asse della resistenza”. Qualcuno potrebbe compiacersene ma già questo può suggerire che lo sterminatore Netanyahu, con l’alleato Trump, potrebbe decidere un nuovo attacco all’Iran.
Gli Usa di recente hanno chiesto a Teheran di disfarsi dei missili oltre i 500 chilometri di gittata, un segnale evidente che la guerra israelo-americana di giugno ha lasciato intatto buona parte dell’arsenale della repubblica islamica. Nei piani di Washington e Tel Aviv all’orizzonte, poi, c’è sempre il cambio di regime. Anche di questo hanno sicuramente parlato in una recente telefonata Putin, alleato dell’Iran, e Netanyahu che gli preannunciava l’accordo di Sharm el Sheikh.
Quanto a Hamas, che ha dovuto cedere alle pressioni dei suoi sponsor come la Turchia e il Qatar, porta sulle spalle la strage del 7 ottobre e la sconfitta epocale dell’asse della resistenza, ma può rivendicare la liberazione dei prigionieri politici e soprattutto ha l’occasione di salvare la pelle della leadership rimasta, in attesa di capire chi libererà davvero Israele dalle sue carceri. Ovviamente il nome del carismatico Marwan Barghouti è sulla bocca di tutti, anche se per ora resta dietro le sbarre.
I capi dei palestinesi, che intravedono adesso un esilio lontano dalla Palestina, proveranno a giocare il ruolo che per tanti anni fu dell’Olp, quando in fila si aspettava di notte di incontrare Yasser Arafat nel suo quartier generale di Tunisi. In qualche modo si ricomincia daccapo ma sulle macerie di una Gaza sventrata e di una Cisgiordania fatta a brandelli da Israele e dai suoi coloni.
Ma anche la partita israeliana si riapre. Mentre ieri si attendeva la decisione del governo di Tel Aviv, si facevano ora dopo ora sempre più martellanti gli interrogativi degli israeliani sulla strategia del loro governo a Gaza, sul dopoguerra nei territori palestinesi e sulle pesantissime responsabilità del primo ministro Benyamin Netanyahu nella morte degli ostaggi e negli errori che hanno permesso gli attentati del 7 ottobre. Netanyahu, comunque inseguito da un mandato della Corte penale internazionale, finora ha evitato le commissioni di inchiesta e i tribunali, ma sembra abbastanza probabile che nel caso di abbandono dei partiti messianici, contrari all’accordo, si profilino elezioni anticipate.
Quanto a Trump, aspirante Nobel per la pace e padrino del Patto di Abramo, è già sull’aereo che tra domenica e lunedì lo porterà a fare un discorso alla Knesset israeliana, dove sicuramente si autocelebrerà, con la sua corte di immobiliaristi, come il grande vincitore dell’accordo stilato in Egitto.
Bisogna però essere chiari. L’intesa non è il risultato di un compromesso tra le parti in conflitto -Israele e Hamas – ma soprattutto della volontà americana sostenuta dai mediatori regionali, Qatar, Egitto e Turchia. Il genocidio di Gaza non era evidentemente più funzionale ai piani presidenziali.
Una cosa è certa: la resistenza palestinese continuerà, anche se la società civile deve rinascere dalla distruzione e dalla sanguinosa e pervasiva repressione di Israele. E dovrà proseguire anche la mobilitazione europea, soprattutto qui, dove il governo non vede l’ora di svuotare le piazze e intestarsi un accordo al quale ha contribuito soltanto vendendo e importando armi da Israele, senza mai riconoscere lo stato palestinese, assumendo il ruolo di ventriloquo di Netanyahu e insultando i volontari delle Flottiglie umanitarie. Altro che sovranisti.