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Zelensky costretto a trattare sul piano Usa che lo umilia

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Politica estera

21/11/2025

da Il Manifesto

Sabato Angieri

Il limite ignoto Dopo il colloquio con i generali inviati da Trump, a Kiev si cerca di prendere tempo

II piano di Usa e Russia per la fine della guerra in Ucraina è arrivato a Kiev, Zelensky l’ha ricevuto ufficialmente ed è stato costretto a dire che ci lavorerà e ne parlerà con Donald Trump. Possiamo già dire che, se le condizioni rimarranno quelle attuali, non sarà un bell’incontro per la parte ucraina. A Kiev si parla di «piano assurdo», di «provocazione per disorientare» gli alleati e, in ogni caso, «inaccettabile». Ma ciò che dicono i funzionari di Zelensky non muove miliardi di armamenti necessari al fronte, non sposta finanziamenti che tengono in vita lo stato e se l’Ucraina vuole continuare a esistere ha bisogno degli Stati uniti.

QUINDI di Donald Trump, che però è tornato a quella che secondo lui è la diplomazia: mettersi d’accordo con il più forte della contesa e costringere tutti gli altri a suon di ricatti o finte concessioni. Come spiegare altrimenti una proposta che è, essenzialmente, la copia carbone delle rivendicazioni russe dall’inizio del conflitto? Dov’è la diplomazia in questa periodica riproposizione delle richieste di Vladimir Putin? Se non volessimo rispondere che gli uffici esteri statunitensi non hanno fatto (o non sono riusciti a fare) nulla in questi mesi, dovremmo dedurne che Washington ci reputa tutti idioti o almeno smemorati. Oppure, in ultima analisi, che se ne frega. Presentare il 19 novembre 2025, 45 mesi dopo l’invasione russa, un piano che prevede la cessione dei territori del Donbass – anche di quelli non occupati dai soldati russi – vuol dire non tenere in minima considerazione il fatto che già dal 2014 in Ucraina si combatte per quelle maledette due regioni. Non solo, significa anche fregarsene delle centinaia di migliaia di caduti per la difesa di ogni centimetro del Lugansk e del Donetsk. Dove in questo momento stesso si combatte: a Pokrovsk, a Kostiantinivka e poco più a nord, a Kupiansk, che il Capo di stato maggiore russo Valerii Gerasimov ieri ha dato per conquistata. Al di là di ogni valutazione ideologica o della tanto abusata realpolitik, il punto è pratico: i militari ucraini non acconsentiranno a lasciare ciò per cui hanno combattuto così duramente e che gli è costato vita, famiglia, mutilazioni, case e salute psicologica. Obbligare in qualche modo Zelensky a firmare un accordo che ceda la parte del Donetsk non ancora conquistata vuol dire segnarne la fine politica – ora che è già in difficoltà per le indagini degli uffici anti-corruzione sui suoi amici e ministri – e metterlo in pericolo fisico, porgendo il fianco a tutti gli opportunisti post-bellici e agli ufficiali affabulatori che non aspettano altro che le armi tacciano per iniziare la propria scalata. «Il mito della vittoria mutilata» leggevamo sui libri di scuola delle superiori, sappiamo com’è andata a finire.

MA NON SARÀ SUFFICIENTE consegnare territori, ci sarà anche lo smacco del riconoscimento internazionale, che gli Usa intendono fare direttamente e al quale vogliono spingere gli alleati occidentali. Gli stessi che per quattro anni hanno ripetuto «con l’Ucraina fino al ripristino della sua integrità territoriale», dopo aver sproloquiato di «vittoria». Certo, al governo di Kiev sarà concesso di non riconoscere i propri territori come russi. In altri termini potrà continuare a rivendicarli in un mondo che li ha già riconosciuti come russi dopo anni di conflitto sicuramente non vorrà più sentirne parlare. Tranne coloro i quali saranno impegnati nella spoliazione delle ricchezze ucraine: aziende statunitensi per le terre rare, europee per la ricostruzione, chissà chi per il grano e l’energia… Dato che in questo piano non è lasciato nulla al caso, bisogna anche evitare che qualche sconsiderato generale ucraino possa danneggiare la Russia. Di conseguenza la armi a lungo raggio andrebbero riconsegnate e l’esercito di Kiev andrebbe addirittura dimezzato. Tutto ciò, ovvero la capitolazione dell’Ucraina, in cambio di non meglio specificate garanzie di sicurezza dagli Usa. Per chi volesse, dalla vigilia dell’invasione del febbraio ’22 a oggi esistono decine di dichiarazioni russe facilmente recuperabili on-line, da Putin in giù, che avanzano le stesse richieste presentate in questo accordo. In che modo questo piano sia «dettagliato e accettabile per entrambe le parti per fermare le uccisioni e creare una pace duratura», come dichiarato dalla portavoce della Casa bianca, Karoline Leavitt, non è chiaro.

Da Mosca per ora non si sono esposti, la portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova ha dichiarato di «non essere a conoscenza di alcun piano», e poi gli ha fatto eco il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov: «non abbiamo alcuna novità». Intanto i russi hanno riconsegnato agli ucraini le salme di mille caduti, altri mille di chissà quanti, gli ucraini ne hanno restituiti 30. Putin non si esprime, ne approfitta per visitare le truppe al fronte, è – di nuovo – il suo momento.

ZELENSKY NON PUÒ opporre un rifiuto netto agli Usa e deve prendere tempo, in un periodo in cui il suo strapotere è minacciato dallo scandalo corruzione che ne mina la credibilità internazionale. Ieri si è rifiutato di cacciare il suo braccio destro, il capo di gabinetto Andriy Yermak, e la mossa non è piaciuta a chi voleva un segnale forte di discontinuità. In anticamera, minacciosi e impazienti, c’erano due generali a quattro stelle mandati da Trump per esercitare pressione: il segretario dell’esercito, Daniel Driscoll e il capo di Stato Maggiore, Randy George. Il giorno prima a Istanbul il leader ucraino si era rifiutato all’ultimo di incontrare l’inviato speciale della Casa bianca, Steve Witkoff. Ma, se è vero che l’altro inviato, quello favorevole all’Ucraina, Keith Kellogg, a gennaio si dimetterà, Zelensky non si potrà sottrarre a lungo alle malie di Witkoff. Comunque in viaggio verso la Turchia avrebbe detto: «non c’è nulla da discutere a partire da queste basi». Invece ieri ha scritto su X che «Durante un incontro con il segretario dell’esercito Usa abbiamo discusso le opzioni per raggiungere una pace reale. Siamo pronti per un lavoro costruttivo, onesto e veloce». Dei tre aggettivi l’unico che interessa a Trump è l’ultimo.

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