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L’estrema destra continua a lavorare per il controllo dell’informazione

L’estrema destra continua a lavorare per il controllo dell’informazione

Varie scosse hanno colpito il mondo dell’informazione e il servizio pubblico, negli ultimi tempi.

Nell’impossibilità di misurarle su una scala a rigore di scienza, procediamo comunque a passarle in rassegna, poiché indicative di come l’attuale maggioranza, in vista delle europee e guardando ai mesi successivi, stia alzando il livello dello scontro politico avendo in mente obiettivi ben precisi. Non c’è bisogno di avere chissà quali doti divinatorie per arrivare a capirlo, né dei vaticini di intellettuali profeti: basta l’osservazione di quanto applicato in altri paesi, seguendo modelli ormai consolidati. 

La par condicio “qualitativa” della maggioranza e il “cambio di narrazione” nella Rai

Partiamo dagli emendamenti approvati alla bozza di regolamento AgCom sulla par condicio. “Servizio pubblico ridotto a megafono del governo”, “si ritorna all’Istituto Luce”: così viene bollato dall’USiGRai, il sindacato dei giornalisti Rai, con tanto di comunicato letto durante le edizioni del telegiornale. 

Gli emendamenti, approvati il 9 aprile dalla maggioranza in commissione Vigilanza Rai, così dispone all’articolo 4, comma 6:

Nel periodo disciplinato dalla presente delibera i programmi di approfondimento informativo, qualora in essi assuma carattere rilevante l’esposizione di opinioni e valutazioni politico elettorali, sono tenuti a garantire la più ampia possibilità di espressione ai diversi soggetti politici, facendo in ogni caso salvo il principio e la necessità di garantire ai cittadini una puntuale informazione sulle attività istituzionali e governative

Nella parte finale del comma si celerebbe l’inghippo, come spiegato tra gli altri da Carlo Canepa (Pagella Politica) e Vitalba Azzollini (Domani). Spiega infatti quest’ultima, parlando apertamente di “zona franca” a favore della maggioranza: 

Si potrà, quindi, parlare con particolare ampiezza delle attività svolte dall’esecutivo, con conseguente maggiore visibilità dei suoi componenti, a scapito degli spazi che residuano per gli altri politici, nonché in deroga alla parità di condizioni che vale per questi ultimi. Se si considera che esponenti del governo sono candidati alle elezioni europee, si comprendono i motivi dell’emendamento e i risultati attesi.

Un altro aspetto controverso degli emendamenti è il comma 4 dell’articolo 4, per il quale i rappresentanti delle istituzioni candidati devono rispettare le regole stabilite per tutti gli altri, “salvo intervengano su materie inerenti all’esclusivo esercizio delle funzioni istituzionali svolte”. Tra i programmi di informazione, come rileva Canepa, “sono compresi i telegiornali, i giornali radio, i notiziari, le rassegne stampa e ‘ogni altro programma di contenuto informativo, a rilevante presentazione giornalistica’”. Con la scusa di dover informare i cittadini sulle attività di governo, quindi, esponenti della maggioranza avranno molto più spazio degli altri candidati alle prossime elezioni europee.

Gli emendamenti, messi così, sono una variazione furbesca di quanto chiesto dall’AgCom. L’Autorità garante per le comunicazione, infatti, a luglio aveva segnalato la necessità di integrare le norme sulla par condicio con criteri che non fossero solo quantitativi, ossia relativi al tempo concesso alle varie forze politiche, ma anche qualitativi, ossia relativi alle fasce orarie. Questo perché dieci minuti in prima serata sono ovviamente diversi da dieci minuti trasmessi a notte inoltrata. 

L’AgCom e la commissione di Vigilanza sarebbero in teoria chiamate a dialogare tra loro, nei rispettivi ruoli, per arrivare a regole condivise. Tuttavia l’AgCom, dopo la segnalazione di luglio, ha provveduto per l’appunto a stilare prima una bozza e poi un regolamento che non ha tenuto conto degli emendamenti della maggioranza, e che sarà applicato per le reti pubbliche e private. Nonostante ciò, il commissario AgCom Antonello Giacomelli ha dichiarato che il testo “è perfettamente sovrapponibile con la delibera adottata dalla commissione di Vigilanza”. 

A nostro avviso pareri come quello di Giacomelli sono un po’ troppo ottimisti. Prima di tutto, perché fuori dai confini italiani hanno iniziato a preoccuparsi, con i Verdi che al Parlamento Europeo hanno invitato la Commissione Europea a indagare sul nuovo regolamento. Inoltre, Giacomelli sembra partire dal presupposto che chi ha stilato le regole, le ha approvate ed è chiamato in prima persona a rispettarle abbia davvero l’intenzione di garantire una corretta informazione. E che quindi da un anno a questa parte non ci sia in atto, da parte dell’attuale maggioranza, una vera e propria operazione di conquista della Rai, come faceva notare lo scorso anno Francesca De Benedetti. Operazione resa possibile, tra l’altro, anche da una legge approvata dal governo Renzi nel 2015, che ha aumentato l’influenza governativa a Viale Mazzini. A dimostrazione che il problema riguarda la politica ad ampio spettro.

La situazione attuale della Rai va ben oltre la semplice lottizzazione, pratica di per sé deprecabile e purtroppo strutturale nei rapporti tra politica e media in Italia. Ricorda piuttosto la presa del servizio pubblico polacco da parte del partito di estrema destra Diritto e Giustizia (Prawo i Sprawiedliwość). Là la trasformazione del servizio pubblico in megafono del governo fu motivato dal bisogno di bilanciare l’informazione privata. Da noi invece Meloni ha parlato più volte del bisogno di “cambiare narrazione”, una sottovariante del vittimismo del potere. Del resto parliamo di una maggioranza e di una commissione di Vigilanza che a luglio ha cancellato un programma televisivo per rappresaglia politica, come successo a Roberto Saviano.

Da questo punto di vista, il comunicato e la presa di posizione dell’USiGRaI è stato un sussulto di dignità. Purtroppo è arrivato da una categoria professionale che negli anni ha lavorato per minare la fiducia del pubblico, e lo stesso servizio pubblico non è esente da colpe. Tuttavia, è anche per questo motivo che il campanello d’allarme dell’USiGRai dovrebbe fissarsi ai nostri timpani: vuol dire che la misura è oltremodo colma, nonostante il recipiente sembri enorme. 

Ci sono stati nei mesi scorsi proteste dei comitati di redazione del TGR e di Rai News per “ingerenze politiche”. Ma questo tipo di mobilitazioni smuovono più che altro gli addetti, le associazioni e i sindacati di categoria, come se l’informazione non fosse un diritto essenziale che ci riguarda tutti; da questo punto di vista il problema è culturale ancora prima di essere politico. 

Questo “cambio di narrazione” ha avuto finora conseguenze sugli interi palinsesti. A voler essere il più generosi possibile, si potrebbe dire che la dipartita di volti storici del servizio pubblico come Annunziata, Fazio, Augias e, da ultimo, Amadeus (senza contare le voci su Federica Sciarelli e Sigfrido Ranucci tra addii e “blindature”) non sarebbe di per sé un fosco presagio. Il punto, però, è che finora questo ricambio è stato accompagnato da un rinnovamento mediocre, con programmi strombazzati che hanno chiuso dopo poche puntate. Sono però rimasti i nomi discutibili piazzati nei posti chiave, come il direttore del Tg1 Gian Marco Chiocci. Nel 2017 il quotidiano Il Tempo, allora diretto proprio da Chiocci, proclamò “uomo dell’anno” Benito Mussolini, e non perché vi fosse scarsità di candidati vivi. E questo solo per rendere l'idea.

Ne ha tratto giovamento prima di tutto Mediaset, che ha festeggiato nel 2023 il sorpasso di ascolti sulla Rai. Sorpasso che è stato oggetto di un botta e risposta persino tra Fiorello, che l’ha ammesso in diretta su Radio 2, e l’ad Rai Roberto Sergio, che ha parlato di “fake news”.  L’impressione è che quando seguiremo il Festival di Sanremo 2025, e ascolteremo le battute del comico filogovernativo di turno, col senno di poi ripenseremo a Fiorello come se fosse stato Bill Hicks.

Il livello dello scontro si sta alzando (e non ne sentivamo il bisogno)

Negli stessi giorni in cui si consumava lo scontro tra maggioranza, opposizione e USiGRai sul regolamento per la par condicio, ha fatto discutere l’emendamento del senatore Gianni Berrino (Fratelli d’Italia) al ddl Diffamazione. L’emendamento prevedeva il carcere fino a 6 anni e mezzo e una multa fino a 120mila euro. Sono arrivate reazioni allarmate da parte della Federazione Nazionale della Stampa, di associazioni di categoria e da vari giornalisti. L’emendamento è stato in seguito ritirato da Berrino, pare per evitare conflitti con la sua stessa maggioranza. 

A conti fatti, però, più che far litigare la compagine di governo l’emendamento ha avuto una sua efficacia. Ha permesso di deviare l’attenzione da altri punti più problematici della maggioranza. Lo stesso regolamento par condicio, ad esempio, ma anche l’approvazione di un DEF che, nella sua natura, è un testo complesso, non facile da comunicare nei suoi punti critici. Un DEF molto fumoso, per un argomento, l’economia, che è forse il principale tallone d’Achille del governo. 

Emendamenti di questo tipo hanno anche un valore contrattuale. Prima di tutto, perché qualunque altra proposta sulla diffamazione sembrerà più “moderata” e ragionevole”, come nella più classica applicazione della strategia “porta in faccia”. Ma tra le righe arriva il messaggio che, volendo, c’è una parte della coalizione pronta ad alzare il tiro senza troppi problemi; qualcuno può pensare che tanto vale scendere a patti con la componente "più moderata". Ma come in ogni drammaturgia che si rispetti, quando una pistola compare l’aspettativa è che prima o poi sparerà.

Poco importa l'eventuale applicabilità di un "emendamento Berrino". Questa destra, la cultura politica che esprime, punta a mettere in crisi lo Stato di diritto, esautorare i presidi democratici, fomentare il caos per porsi come custodi della legge e dell’ordine. 

A costo di ripetersi o sgolarsi a vuoto: se nel 2024 c’è gente convinta che il fascismo dei Trump, dei Bolsonaro o degli Orbán sia la reazione a una sinistra troppo “[riempire con parola vuota a piacere]”, e che se la sinistra fosse un po’ più di destra allora la destra non sarebbe costretta a radicalizzarsi, c’è tutta una letteratura sul concetto di “negazione” da recuperare. Il bullo è tale per motivi che esulano dalle caratteristiche del bullizzato. Le caratteristiche del bullizzato, al limite, spiegano perché venga scelto come bersaglio dal bullo.

Ecco perché lo scenario di una legge inapplicabile, o destinata a essere bombardata da ricorsi sulla sua costituzionalità o sulla conformità o meno alla Convenzione europea sui diritti dell’uomo è una strategia che non inficia questa agenda, anzi. Parliamo pur sempre di un paese in cui la classe politica, quando viene condannata sul mancato rispetto dei diritti umani, tende a fregarsene e andar dritta per la propria strada. Oppure, come nel caso del decreto Piantedosi, pensa bene di andare all’assalto di pesi e contrappesi democratici, come la magistratura che fa il suo lavoro.

Sotto questo aspetto c’è tutto un lavoro di alfabetizzazione giuridica basilare che manca, e che nessuna sembra intenzionato a caricarsi sulle spalle, e che rende quindi i cittadini meno attenti, meno consapevoli delle implicazioni. E questa è naturalmente l’altra metà del problema: perché si tratta di un lavoro fondamentale che non può essere lasciato ai bravi giuristi, o ad avvocati ed attivisti. Ci si abitua alle pessime leggi fintanto che toccano agli altri - o siamo convinti che sia così. Ci si abitua alla pessima informazione dimenticando che una Rai controllata dai partiti (o nel peggiore dei casi uno solo) è già una ferita che viene inferta, giorno dopo giorno, fascia oraria per fascia oraria, e nessuno sembra intenzionata a curarla.

19/04/2024

da Valigia blu

Matteo Pascoletti

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