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06/12/2019
da Left
Leonardo Filippi
Se i banchieri, i miliardari e l’establishment pensassero che noi rappresentiamo la vecchia politica, che possiamo essere comprati, che nulla stia davvero cambiando, non ci avrebbero attaccato così ferocemente».
Così Jeremy Corbyn, alla presentazione del manifesto elettorale Labour, ha rivendicato la radicalità della proposta del suo partito in vista del voto del 12 dicembre. Tra i punti del programma: diminuzione delle ore di lavoro a parità di retribuzione, nazionalizzazione di poste, ferrovie, acqua ed energia, salario minimo innalzato a 10 sterline, internet veloce gratis per tutti, stop alle tasse universitarie, un piano per una “rivoluzione industriale green”, e molto altro.
Se non stiamo parlando di socialismo, perlomeno nell’accezione più tradizionale del termine, senza dubbio si tratta di un ambizioso progetto di dismissione del neoliberismo, e dunque della Terza via blariana, unito ad una idea positiva di ridefinizione dell’economia britannica. Un passaggio che, al di là dei risultati elettorali - i sondaggi danno il Labour in rimonta, a 9 punti percentuali di distanza dai Conservatori -, lancia un forte segnale alle forze progressiste (o sedicenti tali) di tutto il continente. Italiane comprese.
«Per la sinistra europea c’è un prima e un dopo Corbyn, proprio come ci fu un prima e un dopo Blair», dice Arturo Scotto, tra i fondatori di Mdp. «O i progressisti riacciuffano la questione sociale e la rimettono al centro di una nuova identità politica - prosegue - oppure vincerà a mani basse la destra che si rafforza sul malessere diffuso». Di certo in Uk la destra non è stata a guardare. «Il programma di Corbyn trova avversari di classe potenti e ben equipaggiati sul piano mediatico ed editoriale - dice ancora Scotto - nonostante sia il più innovativo sul piano ambientale e generazionale». Lungi dunque dal voler “riportare la Gran Bretagna indietro agli anni 70”, come ossessivamente ripetono i Tories seguendo un triste cliché che evoca lo spettro di un rafforzamento dei sindacati e del potere nelle mani dei lavoratori. Bollando la prassi come desueta e pericolosa. Ma «la Corbynomics non è una pagina del passato, un’operazione da Old Labour per esorcizzare l’irrefrenabile ascesa della globalizzazione. Non è il guardare col torcicollo a una visione pre-thatcheriana - spiega il leader Mdp -. È la presa d’atto della chiusura di una stagione liberista e della necessità, nella Gran Bretagna che esce da un trentennio di riduzione del peso dello Stato nell’economia, di una nuova fase di intervento pubblico».
Una fase a cui il Labour si è preparato negli ultimi anni, rinnovando categorie e strumenti teorici. Il settimanale britannico New Statesman l’ha definito «corbynismo 2.0». Per comprendere la sua portata, facciamo un piccolo passo indietro. Alla vigilia delle elezioni del 2017, le bozze del manifesto elettorale erano state diffuse anzitempo da un anonimo attivista labour, col preciso scopo di mettere in imbarazzo la leadership del partito, rendendo pubblici i proponimenti “eccessivamente radicali” inseriti nel programma. Fu un autogol. A detta di molti commentatori politici, quel passaggio fu il vero turning point per la campagna elettorale laburista, che portò alla perdita della maggioranza per Theresa May, con i laburisti che incassavano il 40% delle preferenze.
Ecco, rispetto al pur innovativo manifesto del 2017, quello attuale compie un ulteriore salto in avanti. Frutto anche di un dibattito vivace a sinistra, innescato ad esempio dalle riflessioni di PostCapitalism di Paul Mason, Fully automated luxury communism di Aaron Bastani, Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro di Nick Srnicek e Alex Williams. Saggi nei quali i progressi tecnologici vengono studiati alla luce della possibilità che offrono di liberare le persone da una parte di lavoro divenuto non più necessario. La rivoluzione digitale, d’altronde, fa slittare il conflitto sociale anche in piani paralleli e laterali rispetto a quello novecentesco che vedeva fronteggiarsi capitale e lavoro.
«Se andiamo ad approfondire le idee che sono il vero “carburante” per la piattaforma laburista, come quelle di Mason e Bastani, troviamo che la crisi del capitalismo neoliberale è collegata non solo con la crisi finanziaria del 2008 ma anche con sfide epocali come l’avvento dei Big data e del machine learning, i cambiamenti climatici e i dilemmi etici posti dalle biotecnologie e dall’intelligenza artificiale» dice a Left Alessandra Maiorino, senatrice 5 Stelle, vicepresidente vicario del gruppo parlamentare. E, di fronte a queste sfide, la parola chiave scelta dal Labour è «redistribuzione».
Significa «redistribuire i profitti, i beni e la proprietà per condividerli con la comunità, commenta Maiorino. Ad esempio, nei piani del Cancelliere dello scacchiere ombra John McDonnell, c’è l’idea di creare dei “fondi di proprietà inclusiva” nei quali le società con più di 250 dipendenti dovrebbero gradualmente trasferire il 10% delle azioni per darle ai lavoratori». Una strategia per far tornare il Labour ad essere vero punto di riferimento per la working class.
«Il tratto distintivo di sinistra della piattaforma programmatica di Corbyn è l’idea di riorientare l’economia, che oggi lavora per le fasce privilegiate della società, verso le fasce più fragili - aggiunge Maiorino - e questo è un aspetto che, con i dovuti distinguo, trovo condivisibile». Poi ci sono le nazionalizzazioni. Parola che complessa, che però una sinistra degna di questo nome dovrebbe tenere ben ancorata al proprio vocabolario. «La Gran Bretagna ha avuto un processo di privatizzazione fortissimo, e ora stanno tornando indietro - dice a Left Felice Besostri, socialista del Circolo Rosselli di Milano -. Persino nella “supercapitalista” svizzera ci sono due realtà escluse da ogni privatizzazione: poste e ferrovie.
Il punto fondamentale oggi è che o ritorniamo ad un ruolo pubblico nella direzione dell’economia, come propone Corbyn, o altrimenti la logica neocapitalistica è destinata a trionfare». «In Italia - torna a dire la pentastellata Maiorino - non si riesce a parlare di nazionalizzazione o di gestione pubblica dei beni e delle infrastrutture primarie senza che si levino polemiche strumentali, ideologiche e, mi sia consentito, spesso sguaiate. In altri Paesi, come la Germania, ciò è invece normale amministrazione e non parliamo certo di regimi socialisti». Un esempio di questo approccio? «La nostra posizione sull’acqua pubblica - chiarisce Maiorino - un’idea di futuro al centro del programma M5s».
Peccato che una proposta di legge per la ripubblicizzazione del settore idrico, firmata dalla pentastellata Federica Daga e frutto del lavoro di molte associazioni, giaccia abbandonata alla Camera. E il MoVimento nel suo complesso sembri poco interessato a sollevare la questione. Sull’altro fronte di governo, quello del Partito democratico, finita (?) l’era della Renzinomics quando l’allora segretario dichiarava «vendibili» Eni, Enel, ma anche Poste e Ferrovie, oggi pare si navighi a vista. Ma il punto, secondo l’europarlamentare dem Pierfrancesco Majorino, è che sulle statalizzazioni serve pragmatismo. «Sarà che le storie dei Paesi, Italia e Uk, sono diverse, ma credo sia necessario valutare caso per caso - dice l’europarlamentare Pd -. Prendiamo la sanità: un pubblico forte è indispensabile e una convivenza con un privato competitivo può essere molto utile ad erogare una buona cultura della cura e della salute. Guardando il programma di Corbyn da casa nostra direi: non è un tabù l’intervento pubblico. Discutiamone laicamente. Ogni trent’anni cambiamo ideologia. Prima tutto pubblico, poi corsa al mercato. Posto che ciò che va preservata è l’utilità pubblica delle cose e non innanzitutto la “proprietà”, vediamo cosa è più utile». Ad ogni modo, torna a dire l’eurodeputato dem, «il corbynismo mi affascina, in tanti guardiamo a quel mix di sfide ambiziosissime e al “no” alla Brexit che porta avanti. Anche se non ho sempre capito la forte cautela di Corbyn sulla gestione dello scontro che si è aperto sul tema dell’Europa. Ma sono colpito dalla sua voglia di cambiamento radicale. E dal fatto che il suo percorso si è fatto condizionare in modo straordinario dalla partecipazione diretta di cittadini e attivisti»