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23/12/2019
di Valeria Deplano
da Left
Nel dopoguerra si è fatta strada una narrazione istituzionale edulcorata della nostra presenza coloniale in Africa. Così il silenzio è calato sui campi di concentramento in Libia, sulle armi chimiche in Etiopia, sugli eccidi paragonabili a quelli nazisti in Italia.
E' il rapporto col presente - con la vita, per dirla con Pierre Nora - ciò che soprattutto differenzia la memoria dalla storia. Quest’ultima è infatti rappresentazione del passato, di ciò che non c’è più; mentre le memorie collettive sono il frutto di processi di selezione e di interpretazione di quel passato alla luce del presente, e del punto di vista dei gruppi sociali che le producono. Se ripercorso al contrario, dalla memoria verso la storia, il processo di creazione delle memorie e delle narrative che le sostengono è capace di dirci molto della realtà attuale: soprattutto ci dice come i fatti del passato sono stati selezionati, e perché le diverse memorie si sono modificate col modificarsi della realtà, o sono state difese. In quest’ottica la storia degli “italiani brava gente”, elemento centrale della memoria collettiva sul colonialismo italiano, sembra capace di dirci qualcosa sull’Italia repubblicana. La formula “italiani brava gente” non nasce in relazione con la questione coloniale, ma è stata elaborata nel dopoguerra ad indicare una generale attitudine, attribuita al popolo italiano in contrasto con quello tedesco, a non essere mai veramente crudele, violento, e razzista ma piuttosto empatico e al massimo vittima delle contingenze.
La formula si è però dimostrata particolarmente efficace per sintetizzare gli elementi portanti della narrazione egemone sul colonialismo, incentrata sui coloni italiani, descritti come lavoratori, per di più lavoratori migranti; e sull’effetto positivo del loro lavoro nei territori coloniali, in particolare nel campo delle infrastrutture. Alla base di questa narrazione, come sempre capita ai miti, ci sono alcuni fatti reali: è vero che l’Italia investì notevolmente nel campo delle infrastrutture, anche se più che un atto di bontà si trattava di un’azione fondamentale per l’occupazione e il controllo del territorio. Ne è dimostrazione, ad esempio, il fatto che squadre di operai militarizzati addetti alla costruzione di strade accompagnassero l’avanzata delle truppe verso l’Etiopia. È vero anche che una parte consistente dei coloni italiani era composta da lavoratori manuali. Erano contadini, anche se in misura minore di quanto avrebbe voluto il regime, ed erano operai.
È vero, ancora, che moltissimi andarono in Africa perché convinti di trovarvi l’America: un lavoro, condizioni di vita migliori, la possibilità di mettere da parte somme da reinvestire una volta tornati a casa. A differenza degli altri migranti, però, i coloni godevano di una situazione di privilegio rispetto alle popolazioni autoctone. Non poteva essere altrimenti: il colonialismo è un sistema di dominio diseguale che presuppone una condizione di superiorità a cui fa da contraltare una condizione di inferiorità. Gli italiani, in maniera consapevole o no, quando andarono in colonia e anche quando non vi andarono ma la sognarono e la esaltarono, si trovarono a sostenere un sistema basato sul sopruso e sulla violenza. Un sistema che escludeva le popolazioni del Corno d’Africa e quelle della Libia da una piena vita lavorativa e sociale, che le limitava nell’utilizzo delle terre, che ne riduceva le possibilità di scolarizzazione per non rischiare di sconvolgere l’ordine sociale che le collocava in posizione subalterna; un sistema che legittimò atteggiamenti predatori nei confronti delle donne, e che arrivò ad includere la segregazione spaziale nelle città coloniali.
Si tentò di celare e negare i crimini per mantenere un ruolo nelle ex colonie
Tutto questo non ha trovato posto nella rappresentazione della “brava gente”; così come silenziata e persino attivamente negata è stata la violenza attiva, fisica, praticata in colonia. Mentre nei media repubblicani ben presto trovarono spazio le brutalità compiute dalle altre potenze imperialiste, l’Italia costruì la propria memoria e la propria identità in contrasto con tali comportamenti, rivendicando la propria diversità. Su questo piano, non a caso, si sono combattute le lotte più aspre tra chi - in primis i primi governi repubblicani - aveva tutto l’interesse per eliminare dalla narrazione i fatti e gli eventi di sangue che costellano la storia del colonialismo italiano, e gli storici che cercavano di restituire alla riflessione collettiva gli elementi utili per l’elaborazione di un giudizio critico sul passato. Elementi come la costruzione di campi di concentramento in Libia, le deportazioni, le esecuzioni sommarie, l’uso delle armi chimiche nella guerra d’Etiopia, gli eccidi di Addis Abeba nel 1937, la strage degli indovini e quella del monastero di Debra Libanos.
Una scia di massacri paragonabili - ma troppo di rado paragonati - a quelli subiti dagli stessi italiani durante l’occupazione nazista, e che mal si conciliano con la narrazione dell’italiano colonizzatore diverso. Ma perché questi elementi sono stati espulsi, e perché si è insistito tanto nell’ostacolare, ancora decenni dopo la fine della guerra, la circolazione di narrazioni alternative? I governi del dopoguerra avevano vari motivi per scegliere una linea narrativa che tendeva a edulcorare la realtà, ad addossare a Mussolini le responsabilità non obliterabili del colonialismo (come la scelta di occupare l’Etiopia), e al contempo a rivendicare il presunto “buon comportamento” degli italiani comuni in Africa.
Innanzitutto, sino alla fine degli anni 40, l’Italia cercò di ottenere un ruolo in Libia, Eritrea e Somalia, le colonie occupate in età liberale. Fu con un obiettivo preciso, dunque, che si scelse di costruire una narrazione fondata non solo sull’assenza dei crimini, ma sul portato positivo di una presenza italiana che si intendeva prolungare. A quell’obiettivo specifico se ne sommavano altri, in primis quello di dare forma a un’immagine virtuosa della nazione che si avviava a diventare repubblicana: separando quindi le colpe del governo fascista (seppure attenuandone gli aspetti più violenti) da quella della gente comune, che una narrazione clemente e basata sul lavoro redimeva e consegnava libera dai peccati ad una nuova fase della storia.