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Da Unicredit e Intesa Sanpaolo 63,8 miliardi di dollari alle fossili in sette anni

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15/04/2023

da Valori

Valentina Neri

 

Banking on Climate Chaos svela che le maggiori banche italiane, Unicredit e Intesa Sanpaolo, non si sono ancora svincolate dalle fonti fossili

A guardare i comunicati stampa e gli eventi di settore, sembra che il net zero – l’azzeramento delle emissioni nette di gas a effetto serra – sia una missione trasversale, condivisa da tutte le big della finanza. Comprese le italiane. Unicredit e Intesa Sanpaolo, infatti, hanno promesso a più riprese di svincolarsi dai combustibili fossili, principali responsabili del riscaldamento globale. Ma è davvero così? Anche quest’anno, il report Banking on Climate Chaos svela i numeri. Spiegando che, nei portafogli delle due banche, carbonepetrolio e gas sono ancora presenti, eccome. Per la precisione, nel 2022 i finanziamenti alle fossili sfiorano i 9 miliardi di dollari. Dalla firma dell’Accordo di Parigi, arrivano a un totale di 63,8 miliardi.

Cosa emerge dal rapporto Banking on Climate Chaos

Il report Banking on Climate Chaos è redatto da Rainforest Action Network, BankTrack, Indigenous Environmental Network, Oil Change International, Reclaim Finance, Sierra Club e Urgewald. Ogni anno fa il punto sui finanziamenti ai combustibili fossili erogati dalle 60 più grandi banche globali. Nel 2022 il volume è di 673 miliardi di dollari, arrivando a un clamoroso totale di 5.500 miliardi di dollari dal 2016 in poi.

                                                      

La – parziale – buona notizia è che le banche europee non sono le peggiori. A dominare la classifica di quest’anno infatti sono una canadese, una statunitense e una giapponese. Royal Bank of Canada è al primo posto con 42,1 miliardi di dollari; segue JP Morgan Chase, con 39 miliardi nel 2022 e uno stratosferico totale di 434 miliardi in sette anni; chiude il (poco invidiabile) podio Mitsubishi UFJ Financial Group con 29,5 miliardi. La brutta notizia sta nel fatto che, comunque li si guardi, questi soldi sono troppi. Tanto più perché arrivano anche da banche che, almeno a parole, si erano impegnate per la decarbonizzazione.

Da Unicredit e Intesa Sanpaolo quasi 9 miliardi di dollari di finanziamenti alle fossili

Le uniche due italiane in classifica sono, come ricordato, Unicredit e Intesa Sanpaolo. La prima nel 2022 ha erogato 5,7 miliardi di dollari di finanziamenti a 3.200 società attive nel comparto dei combustibili fossili (l’anno scorso quelle monitorate erano 2.700, motivo per cui i ricercatori hanno dovuto aggiornare i dataset storici). Una cifra in netta crescita rispetto ai 4,8 miliardi dell’anno precedente. Aggiungendo anche quelli stanziati tra il 2016 e il 2021, si arriva a un totale di 42,8 miliardi. Più contenuti i volumi di Intesa Sanpaolo: 3,2 miliardi di dollari nel 2022, circa 21 dal 2016 in poi.

Sommando i due istituti, dunque, si arriva 8,9 miliardi di dollari nel 2022, 63,8 miliardi in sette anni. Sarebbero sufficienti per coprire quasi per intero gli investimenti per la transizione ecologica previsti dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Questi ultimi infatti ammontano a 59,46 miliardi di euro, cioè 64,9 miliardi di dollari.

Per giunta, queste cifre sono parziali. «Quest’analisi, che è la più accreditata a livello internazionale, prende in considerazione soltanto i finanziamenti, cioè prestiti e sottoscrizioni», spiega a Valori Daniela Finamore, campaigner finanza e clima dell’associazione italiana ReCommon. «Intesa Sanpaolo è essenzialmente una banca di investimenti: la sua esposizione finanziaria reale dunque è molto più grande».

Tutti i dati su Unicredit e Intesa Sanpaolo

Andando a scandagliare i dati più da vicino si scopre che, sui 5,7 miliardi di dollari erogati da Unicredit nel 2022, 633 milioni sono andati alle cento più grandi aziende del settore e 440 alle trenta principali imprese che estraggono gas e petrolio offshore (queste ultime hanno ricevuto 4,4 miliardi in sette anni).

Di passi avanti, fortunatamente, ce ne sono però stati. Lo scorso anno infatti non risultano finanziamenti a sabbie bituminose, fracking né trivellazioni nell’Artico (alle quali Unicredit ha erogato però ben 2,5 miliardi dal 2016 in poi). Insieme alle francesi La Banque Postale e Crédit Mutuel, è anche una delle tre banche che escludono le aziende impegnate in piani di sviluppo di miniere, centrali e infrastrutture legate al carbone. Tre su 60.

Intesa Sanpaolo, invece, continua a sostenere le trenta maggiori imprese intente a trivellare l’Artico, seppure con una somma in visibile calo: 11 milioni di dollari nel 2022, per un totale che supera il miliardo dal 2016 in poi. Limitati, ma ancora presenti, i finanziamenti a sabbie bituminose (8 milioni) ed estrazione di idrocarburi in Amazzonia (6 milioni), sebbene su quest’ultima attività la banca abbia siglato una policy di esclusione (solo BNP Paribas, Société Générale e Standard Chartered hanno fatto lo stesso). Il grosso dei 3,2 miliardi di dollari del 2022 è diviso tra trivellazioni offshore (1,14 miliardi) e le cento maggiori società fossili (1,8 miliardi).

Il business del gas naturale liquefatto (GNL)

Merita un capitolo a parte il gas naturale liquefatto (GNL). Perché, quando la Russia ha invaso l’Ucraina scatenando una crisi energetica di portata planetaria, industrie, governi e istituti finanziari si sono gettati a capofitto in questo business. Il risultato? Oggi nel mondo ci sono circa 170 terminali di liquefazione e rigassificazione. Almeno altrettanti sono in fase di approvazione. Pur essendo stata spacciata per una questione di sicurezza energetica, questa è una scelta miope e pericolosa, sia per il clima sia in termini prettamente finanziari. Il rischio (concreto) è di trovarsi alle prese con troppe strutture sostanzialmente inutili, rese antieconomiche dalle frequenti oscillazioni dei prezzi.

 

Anche in questo caso, le banche italiane non si sono tirate indietro. «Fra il 2016 e il 2022, Intesa Sanpaolo ha concesso finanziamenti per 3 miliardi di dollari alle prime 20 società coinvolte nell’espansione del settore del GNL, nonché 890 milioni di investimenti al 1 gennaio 2023», sottolinea Daniela Finamore. «Intesa ha erogato 2,1 miliardi di dollari a quelle società che gestiscono e continuano a espandere l’industria del gas liquefatto nel Golfo del Messico, regione già martoriata da eventi climatici estremi, dalla concentrazione di impianti industriali e ora sacrificata sull’altare del GNL per i mercati asiatico ed europeo».