Non è un mistero che un incendio del Kosovo potrebbe congiungersi a quello in atto in Ucraina e mandare in fiamme tutto il continente europeo. Nella nuova crisi tra Pristina e Belgrado – la prima alleata degli Usa, la seconda tradizionale alleata della Russia – corrono fiumi carsici di dinamite liquida.
Non è un mistero che un incendio del Kosovo potrebbe congiungersi a quello in atto in Ucraina.
Ieri la situazione nelle zone serbe del piccolo stato balcanico a maggioranza albanese sembrava tornata alla calma dopo gli incidenti di lunedì, nei quali i manifestanti della minoranza serba (che però in molte municipalità è la maggioranza) si sono scontrati con i militari del Kfor, la forza di interposizione dell’Onu, con un bilancio di oltre 50 feriti tra i civili e una quarantina tra i militari, di cui 14 alpini italiani con fratture e ustioni da bombe molotov. La tensione però rimane altissima.
La crisi si trascina dal 2008, quando il Kosovo, a seguito della guerra mossa dalla Nato contro il regime di Milosevic, dichiarò la propria indipendenza dalla Serbia, di cui era stata per secoli il cuore storico. Inizialmente il nuovo Stato, forte del fatto che gli immigrati di lingua albanese avevano superato numericamente la popolazione di lingua serba, non fu riconosciuto da nessun Paese tranne gli Usa e una manciata di suoi alleati.
Incoraggiare la dichiarazione d’indipendenza fu una forzatura americana, che si inseriva nella strategia della proiezione della Nato a est. Fu un azzardo, perché tutti sapevano che quell’amputazione non necessaria della Serbia era una ferita profonda e dunque una bomba a orologeria, tanto che molti avevano previsto lo scoppio di una nuova guerra balcanica entro 20 anni. Ne sono passati 15. Da settimane l’esercito serbo è schierato sul confine.
Lunedì sera gli scontri sono scoppiati perché Pristina ha imposto d’imperio quattro sindaci kosovaro-albanesi in altrettante cittadine abitate quasi soltanto da serbi e dove questi ultimi si erano astenuti dal votare, per protesta. Quella sera stessa a Belgrado il presidente Alexandar Vucic ha tenuto una conferenza stampa: “Dicevamo da mesi che questo poteva succedere, ma nessuno ci ha ascoltati. Avevamo chiesto ai soldati della Kfor di non far entrare i sindaci albanesi nei municipi, ma loro invece di fermarli li hanno protetti. Ora chiedo ai serbi di non cominciare uno scontro con la Nato, non perché abbiamo paura, ma perché Kurti (il premier kosovaro, ndr) vuole proprio questo”.
In effetti è forte l’impressione che il governo di Pristina cerchi di coinvolgere la Nato. Gli Usa lo sanno e cercano di evitarlo. Due giorni fa il segretario generale dell’Alleanza, Stoltenberg, quasi “ordinava” al governo di Pristina di astenersi dalle provocazioni, ma non è stato ascoltato. Perché si teme un allargamento dell’incendio? La risposta è chiara: potrebbe riprodursi una situazione simile a quella del Donbass che poi nel tempo ha portato alla guerra tra Ucraina e Russia.
Se gli scontri tra serbi e polizia kosovara continuassero, lo scenario ipotizzabile è che dai sassi e dalle molotov si passerebbe alle armi, che potrebbero essere fornite sottobanco dalla Serbia. Proprio come accadde in Donbass, dove gli indipendentisti russi, brutalmente repressi dall’esercito ucraino, furono armati da Mosca “per legittima difesa”. Se questo succedesse in Kosovo, la Serbia, dopo una prima fase di guerriglia, si troverebbe quasi costretta a mandare l’esercito in soccorso dei connazionali d’oltreconfine.
A quel punto gli Usa non potrebbero esimersi dall’aiutare militarmente uno Stato artificiale da loro stessi creato. Per risposta, la Russia affiancherebbe i tradizionali amici serbi, alzando il livello dello scontro. La prima conseguenza sarebbe che lo sforzo bellico della Nato in Kosovo distoglierebbe forze, armi e soldi per gli aiuti all’Ucraina. Non è ciò che conviene all’Alleanza Atlantica. Ma è ciò che potrebbe accadere in mancanza di moderazione, soprattutto dalla parte kosovaro-albanese.
31/05/2023
Abbiamo ripreso l'articolo
da La Notizia