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POLITICA NAZIONALE | POLITICA ITALIANA
10/11/2022
da Tag43
Marco Fraquelli
Dal “prima gli italiani” al “prima l’italiano” il passo è breve. E la destra lo sa bene, come dimostra Rampelli che con orgoglio preferisce la parola ‘dispensatore’ a dispenser. Una battaglia tipica del Ventennio quando si faceva colazione con la brioscia, si brindava con la sciampagna e i forestierismi erano banditi e multati.
Dal “prima gli italiani” al “prima l’italiano” il passo è breve. La destra, del resto, è da sempre paladina dell’uso della nostra lingua al posto di quelle straniere. Ultimo esempio quello di Fabio Rampelli di Fratelli d’Italia, vice presidente della Camera, che durante l’elezione di due segretari di presidenza, ha invitato – leggendo un breve testo scritto – i suoi colleghi a sanificare le mani utilizzando gli appositi dispenser prima di ricevere la scheda di votazione e proseguire nella procedura. Ha poi subito precisato che per dispenser si intende il dispensatore (e pazienza se il termine corretto è erogatore). Ma, non contento, ha poi usato i social (Twitter, nella fattispecie) per rivendicare, si direbbe con orgoglio, che «alla Camera dei deputati italiana si parla italiano. Prosegue la battaglia per l’utilizzo della nostra lingua al posto dell’inglese. Non si capisce perché il dispensatore di liquido igienizzante per le mani debba essere chiamato ‘dispenser’».
Al tweet di Rampelli ha immediatamente replicato Carlo Calenda: «Ammazza Fabio grande traguardo! Decisivo per famiglie e imprese. Dopo che hai cambiato nome al dispenser ti tocca cambiare anche Made in Italy (che come si sa completa la definizione di ministero delle imprese). Una cosa tipo: fatto in Italia. Oppure ancora meglio: siamo parecchio fatti in Italia. Che descrive bene le vaccate che scrivete».
La verità è che la tentazione esterofila nell’uso della lingua è sempre molto forte. Lo stesso presidente Giorgia Meloni, nel discorso alla Camera in cui chiedeva la fiducia per il suo governo, si è definita «underdog» per dire sfavorita, svantaggiata. Ma, in quel caso, la si può comprendere, non sarebbe stato carino definirsi “sottocane” (perché pare proprio che l’etimologia si riferisca ai combattimenti tra cani organizzati nel XIX secolo, per cui il cane perdente finiva, appunto, schiacciato dal vincente). Ma a questo punto, forse bisognerebbe rivedere anche il decreto contro i rave party usando il giusto corrispondente: feste di delirio.
È vero, come sottolinea qualcuno, che anche Mario Draghi, non certo ascrivibile alla destra radicale, ha più volte sollevato il tema dell’eccessivo utilizzo degli inglesismi, ma non c’è confronto tra la pacata ironia dell’ex premier e la risolutezza autarchica di chi ora siede al governo. Del resto, il piglio severo nella difesa dell’italianità del linguaggio è un tratto caratteristico nell’album di famiglia – si direbbe oggi – della destra governativa. Tutti conosciamo, dai libri di storia, l’uso esasperato delle italianizzazioni lessicali operate dal regime fascista. Con esiti, qualche volta, davvero esilaranti. Se gli italiani potevano fare colazione inzuppando la brioscia e il pantosto nel caffè, i più ricchi, indossando magari dei begli abiti in tessuto principe, potevano brindare con sciampagnia o farsi un bicchierino di arzete (cognac), o magari farsi per aperitivo una bella bevanda arlecchina (cocktail), frequentare le sale da danzare o i caffè concerto, organizzare feste con ricchi premi e cotiglioni, e magari andare al cinema a vedersi una bella pellicola. Se si doveva riparare qualcosa in casa, si poteva ricorrere alla chiavemorsa, perché chiave inglese ricordava troppo la perfida Albione, così come sconveniente era parlare di insalata russa, divenuta tricolore, mentre l’Hotel – pardon (anzi, perdono), albergo – Eden di Roma dovette cambiare insegna, dato che il ministro degli Esteri britannico portava lo stesso nome. La lotta contro la gramigna esterofila non risparmiò naturalmente gli sport e persino i nomi propri e la toponomastica.
Il fascismo formalizzò la svolta italianizzante della lingua con una legge, la 2022 del 1940, che vietava l’uso di parole straniere nelle intestazioni delle ditte industriali o commerciali e delle attività professionali, e puniva i contravventori con l’arresto fino ai sei mesi e multe fino a 5 mila lire. In realtà, la lotta contro i termini stranieri (barbari) era cominciata già dal 1923, quando coiffeur, bar e garage dovettero sopportare un’imposta maggiorata qualora non avessero modificato il nome con un sinonimo. Mussolini commissionò alla Reale Accademia d’Italia anche un Bollettino che doveva provvedere a fornire l’elenco dei forestierismi banditi, circa 500 termini, che vennero appunto eliminati dai vocabolari italiani e sostituiti con sinonimi italiani. Ma non c’è dubbio che il fenomeno prese ancora più corpo con l’ascesa di Achille Starace (alias il “cretino obbediente” di Mussolini) che, oltre alla fascistizzazione della lingua, diede un grande impulso a quella dell’estetica, del costume, e, in generale, alla vita pubblica e privata degli italiani, dalla istituzione del saluto romano al posto della troppo molle stretta di mano all’utilizzo del voi al posto del lei all’obbligo delle divise nel sabato fascista e così via.
Ovviamente, l’EIAR, l’Ente Italiano Audizioni Radiofoniche, imponeva che la programmazione della radio escludesse in primo luogo la musica d’importazione, quella «di carattere negro» e «con ritornelli cantati in inglese». E anche qui la storia si ripete: se qualche deputato leghista ha potuto pensare di legiferare per imporre all’intera radiofonia una quota obbligatoria di almeno uno su tre pezzi italiani, il musicista Morgan ha di recente dichiarato a un quotidiano che, se il suo ruolo di consulente per la musica del sottosegretario Vittorio Sgarbi fosse confermato, avrebbe già in mente di attuare una vera propria rivoluzione radiofonica per obbligare le emittenti (come già avviene in Francia, ha sottolineato il sotto-sottosegretario in pectore) a diffondere almeno il 50 per cento di musica italiana. Proposta accolta con interesse dal ministro Sangiuliano. Per ambire al ruolo, però, Morgan dovrebbe forse un po’ italianizzarsi anche lui, magari usando il suo vero nome, Marco Castoldi, o almeno trasformare Morgan in Morgano. E nel cv sostituire i suoi Bluvertigo con Vertigine Blu.
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