20/02/2023
DA Valori
La legge 109/96 permette di restituire alla comunità i beni confiscati alle mafie. Ma la sua applicazione rivela ancora molte problematiche.
Giubbotto imbottito, occhiali scuri, sguardo basso. Le immagini dell’arresto di Matteo Messina Denaro, il superlatitante di Cosa Nostra, hanno fatto il giro del mondo. E assieme alla soddisfazione per una cattura tanto attesa, è riesploso il dibattito sulla lotta alle mafie.
Camorra, ‘ndrangheta, Cosa Nostra, Sacra Corona Unita sono prima di tutto potentati economici e finanziari, con proprietà e interessi in ogni angolo d’Italia e del mondo. Un aspetto fondamentale dell’opera di contrasto alla criminalità organizzata è lo smantellamento di questi imperi. E uno strumento che permette non solo di colpire le mafie al portafoglio, ma anche di redistribuirne i beni alla collettività, è la legge 109/96.
La 109/96: una buona legge
Spesso si parla di leggi inefficaci, tardive, dannose. Cattive normative. La numero 109 del 1996 ha rappresentato invece una svolta. Regola la confisca dei beni di proprietà degli esponenti mafiosi e, soprattutto, la loro riassegnazione. Grazie ad essa, case, terreni, aziende, oggetti un tempo di proprietà della criminalità organizzata possono diventare patrimonio della collettività. A gestirli nella loro nuova vita sono gli enti pubblici o, spesso, organizzazioni del terzo settore che li ottengono in comodato d’uso.
È un’idea nata dal basso. La volle fortemente Libera, l’associazione antimafia fondata da Don Luigi Ciotti. La ottenne, appunto, nel 1996. Nel tempo riuscì anche a migliorarla, come quando nel 2010 il governo – su proposta degli attivisti – istituì un’agenzia dedicata alla gestione di questi beni, l’ANBSC (Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati).
I beni confiscati: quanti sono e dove sono
Per tracciare un bilancio di questo strumento legale, a quasi trent’anni dalla sua entrata in vigore, è utile partire dai numeri. Ce li fornisce il ministero della Giustizia, nel suo rapporto semestrale al Parlamento.
Prima considerazione: i beni sequestrati sono tanti. Il governo ha nei suoi database fascicoli riguardanti 230.517 beni a giugno del 2022. Di questi, solo il 40% circa è stato alla fine dell’iter giudiziario dissequestrato e restituito ai proprietari. Seconda considerazione: i sequestri sono in calo da anni. Dal 2017, in media meno di 500 nuovi fascicoli l’anno. Terza considerazione: tali beni sono ovunque. Le regioni storicamente a più alta concentrazione mafiosa – quelle del sud e la Sicilia – rimangono prime in classifica, ma percentuali importanti di confische si registrano anche al centro e al nord.
«Sfatiamo il mito della mafia radicata solo al meridione. Oggi la criminalità organizzata è ovunque, seppure in modo non omogeneo», commenta Tatiana Giannone di Libera. «A seconda delle località, semmai, troviamo diversi tipi di beni. In Sicilia una percentuale maggiore di terreni, in Emilia-Romagna di aziende».
I dati confermano questo scenario. Che si guardi al numero di fascicoli aperti nei palazzi di giustizia o alla mole di beni, il meridione domina, ma nessuna regione può dirsi libera dal fenomeno mafioso. Il 38,6% dei beni iscritti nella banca dati centrale del governo è al sud, il 34% nelle isole (in cui la Sicilia fa la parte del leone). Il 16% si trova al nord, mentre il centro chiude la classifica con l’11,2%.
Di cosa parliamo quando parliamo di beni confiscati
Il sequestro di un bene parte solo laddove il proprietario, indiziato per associazione mafiosa, non ne dimostri l’origine lecita. Con la condanna in secondo grado il bene viene confiscato e trasferito all’agenzia preposta, l’ANSBC. Solo a seguito della condanna definitiva è assegnato allo Stato nelle sue diverse articolazioni (dai ministeri alle forze dell’ordine) o agli enti locali, che a loro volte possono farlo gestire ad una realtà del terzo settore.
I beni di cui parla il rapporto ministeriale possono trovarsi a uno stadio diverso di questo lungo iter. Il 39% dei 230.517 beni censiti dal ministero è stato alla fine dissequestrato, e il 15,3% è ancora in fase preliminare, semplice proposta di sequestro.
Quanti beni, allora, sono stati davvero affidati alla comunità? La risposta non è semplice. Il sistema di trasmissione delle informazioni tra l’agenzia preposta e il governo non è ancora entrato pienamente in funzione, e il ministero nel suo rapporto indica per questo numeri non aggiornati.
Open Regio, portale pubblico dedicato, parla di 21.038 beni destinati al 30 giugno 2022. Altre stime arrivano a cifre leggermente più basse, attorno ai 19mila. In ogni caso, è su questi numeri che si concentrano le critiche di parte del mondo antimafia. Tanti, troppi beni confiscati rimangono inutilizzati o, peggio, occupati abusivamente dai vecchi proprietari.
Troppi beni abbandonati. E per arrivare alle assegnazioni si aspettano anche dieci anni
Matteo Iannitti è un giornalista della rivista online I Siciliani Giovani. Si tratta di una testata che di antimafia si occupa da sempre. La sua redazione ha sede in un locale sequestrato alla criminalità organizzata. È erede de I Siciliani, il giornale di Pippo Fava, che proprio per la sua attività di cronista venne ucciso dai clan.
«Abbiamo tante belle storie di beni sequestrati e consegnati alla comunità. Storie spesso romantiche, commoventi», spiega. «Ma rischiano di restare mosche bianche. Su 45mila beni circa che ci risultano essere destinati o in gestione, contiamo meno di 2.500 esperienze sociali attive».
Libera ha un giudizio più sfumato: «In 27 anni sono stati fatti moltissimi passi avanti. Oggi quasi mille enti del terzo settore gestiscono ex-proprietà mafiose. Moltissime aziende hanno trovato il loro posto nel mercato legale, sano», osserva Tatiana Giannone. Anche lei, però, condivide certe perplessità: «Dal sequestro all’uso sociale del bene possono passare più di 10 anni. Tempi lunghi, lunghissimi, nei quali le proprietà non sono di fatto a disposizione delle persone».
Trasparenza che manca
La trasparenza è in teoria un pilastro della legislazione antimafia. I cittadini hanno diritto di sapere nel dettaglio cosa lo Stato abbia strappato alla criminalità organizzata. Ma anche qui lo iato tra teoria e pratica si fa sentire.
Il rapporto «RimanDati», curato annualmente da Libera, rileva come il 60% dei Comuni non abbia pubblicato l’elenco dei beni confiscati in suo possesso. Nonostante la legge glielo imponga. Le cose non migliorano se alziamo lo sguardo fino alla ANSBC, spiega Iannitti: «Il 30% dei beni destinati è irreperibile, cioè non è indicato un indirizzo esatto. Di molti mancano i dati catastali. E i beni non ancora destinati sono del tutto anonimi, senza informazioni».
«L’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati è la più grande agenzia immobiliare d’Europa – prosegue il giornalista -. Non è accettabile che gli manchino le risorse per compiere un corretto lavoro di informazione trasparente».
Spesso a porre rimedio sono proprio le associazioni. Libera censisce le realtà del terzo settore che hanno in comodato d’uso beni confiscati. Quest’anno ha deciso di farlo ancora più in profondità, e con la campagna «Raccontiamo il bene» chiede agli stessi gestori dei beni di parlare della loro esperienza.
«Stanno sabotando la legge 109/96»
“Andrà bene” è invece il nome scelto da Arci e I Siciliani Giovani per il loro progetto. L’obiettivo è di tracciare e inserire in una mappa facilmente consultabile tutti i beni confiscati nell’isola. Il lavoro è ancora incompleto, ma sulla città di Catania – da cui l’iniziativa è partita – i dati sono già affidabili.
Per Iannitti gli strumenti legali ci sono già: «Il problema è di volontà politica. Noi spesso ci troviamo di fronte ad un muro di gomma delle istituzioni». Iannitti ci descrive uno scenario fatto di migliaia di beni ancora occupati illegalmente dai vecchi proprietari – cioè dalla mafia. E ancora di più, decine di migliaia semplicemente abbandonati, talvolta in stato ruderale: «Noi parliamo di sabotaggio. Sabotaggio della 109/96, sabotaggio della legge Rognoni-La Torre, che creò il reato di associazione a delinquere di tipo mafioso».
I beni confiscati non sono solo immobili
Le proprietà che lo Stato strappa alle mafie sono per il 46% immobili: ville, appartamenti, terreni, garage. Ma l’ANSBC gestisce anche beni mobili, come oggetti di valore e vetture; aziende di ogni genere; beni finanziari come contanti o pacchetti azionari. Normalmente, solo immobili e aziende sono oggetto di destinazione.
Un problema comune nelle esperienze di beni e aziende confiscate e poi destinate è la difficoltà a reperire i finanziamenti necessari. Roberto Orioles, direttore de I Siciliani Giovani, ci parla di una possibile soluzione: «La mafia non ha solo case e aziende. Le vengono sequestrati anche conti correnti e contanti che rimangono congelati. Perché non redistribuirli alla comunità, magari proprio alle imprese confiscate o ai beni destinati?»
Iannitti fornisce i numeri: «Secondo le stime, ci sono quattro o cinque miliardi di euro presi alle mafie e lasciati al Fondo Unico Giustizia, che li parcheggia o li usa per altro».
Ciò che serve per una gestione efficace dei beni confiscati alle mafie
L’uso sociale dei beni confiscati alla mafia è assieme un modello e un problema. Parliamo di una legislazione che rappresenta un esempio per il resto del mondo, e di tante esperienze di assoluto valore. Ma anche di un’applicazione problematica, e di tanti beni abbandonati a loro stessi o lasciati a chi non dovrebbe averli.
L’importanza di colpire al portafoglio la criminalità organizzata ce la racconta chi sui territori ne vede ogni giorno gli effetti. «Noi non facciamo gestione diretta, ma aiutiamo enti locali e associazioni che vogliono intraprendere questo percorso – aggiunge Giannone -. Un esempio virtuoso per noi è quello della GeoTrans di Catania. Parliamo di un’azienda di trasporti in mano alle cosche ripresa in mano da una cooperativa formata dai lavoratori stessi. Oggi opera nella legalità ed è in salute».
La stessa redazione de I Siciliani Giovani ha sede in un locale confiscato. Un appartamento con giardino nel centro di Catania che, per chi ci lavora, ha un valore particolare. Quell’immobile era di proprietà di Nitto Santapaola, il boss di Cosa Nostra che volle l’omicidio di Pippo Fava, padre nobile del giornale.
Di questo spazio racconta Orioles: «Quando lo abbiamo avuto, come prima cosa abbiamo organizzato un evento per ragazzi autistici. Dalle nostre parti funziona così: un giornale fa anche da associazione, da centro sociale, da luogo di cultura. Da noi vengono ragazzi stranieri a fare scambi culturali, si riuniscono i boy scout. Davvero lo abbiamo ridato alla comunità». Esperienze virtuose, insomma. Che però, senza sostegno politico, rischiano di diventare oasi di socialità in un deserto di abbandono.