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Delega fiscale: Meloni fa pagare solo i lavoratori (seconda parte)

Delega fiscale- Meloni fa pagare solo i lavoratori (seconda parte)

Delega fiscale: Meloni fa pagare solo i lavoratori (seconda parte)

01/04/2023

da Coniare Finanza

 

Pubblichiamo la seconda e ultima parte di un articolo sulla recente delega fiscale approvata dal governo Meloni. Qui la prima parte.

Veniamo quindi alla seconda parte della delega, dedicata alle imprese. Qui il piatto forte è il “progressivo superamento/abolizione dell’IRAP (imposta che, lo ricordiamo, è finalizzata in particolare al finanziamento del sistema sanitario), ma soprattutto la riduzione dell’IRES, cioè la principale imposta sulle società.

Attualmente i profitti delle società sono tassati al 24%, anche in questo caso con una ininterrotta tendenza al ribasso nel corso degli anni (per fare un esempio, la tassazione era al 37% nel 2000). Anche se i numeri precisi della nuova IRES ancora non ci sono, il Governo parla pubblicamente del 15% (quindi un mega-taglio di ben 9 punti percentuali, un vero regalo alle imprese), con un meccanismo che dovrebbe istituire un “periodo di osservazione” di due anni durante il quale i risparmi fiscali dovrebbero essere reinvestiti all’interno dell’impresa e non essere distribuiti sotto forma di utili per mantenere il beneficio dell’imposizione ridotta. Una formula del tutto oscura (ad esempio per quanto concerne le modalità di reinvestimento, che potrebbero riguardare tanto le nuove assunzioni quanto nuovi investimenti in macchinari) con un periodo di osservazione comunque troppo breve per assicurare la salvaguardia dei livelli occupazionali, e che in teoria dovrebbe sostituire la miriade di agevolazioni fiscali alle imprese che già oggi fanno sì che il livello effettivo di tassazione sia ben al di sotto di quello nominale del 24%.

E qui veniamo alle motivazioni addotte dal Governo per questo regalo alle imprese, forse anche più preoccupanti del provvedimento in sé. Nel 2024 infatti entrerà in vigore anche in Italia la Global Minimum Tax, cioè un’imposta sui profitti delle multinazionali più grandi che, a prescindere da dove spostano i profitti grazie alla mobilità internazionale dei capitali, dovranno pagare un’imposta effettiva (appunto non nominale, ma rapportata agli utili effettivamente conseguiti) almeno del 15%. Avremo modo di tornare in futuro su questa imposta, e soprattutto sui suoi evidenti limiti. Per il momento, però, evidenziamo quale sia la logica perversa dietro questa scelta. In sostanza, il Governo argomenta così: “ma se facciamo pagare il 15% alle multinazionali, perché le nostre imprese dovrebbero pagare di più?”. Ciò che si innesca, quindi, è una continua corsa verso il basso quindi, con buona pace di una misura (appunto la Global Minimum Tax) venduta come una rete di protezione verso la concorrenza fiscale, e che invece contribuisce a spostare sempre più in basso l’asticella del livello impositivo sulle imprese.

Si tratta di un ragionamento nel quale si confrontano due diverse esigenze di questo Governo: da una parte la tensione ad abbassare il più possibile le tasse per le imprese, dall’altra la necessità di garantire la tenuta delle finanze pubbliche, in ossequio alle norme europee. La seconda di queste forze è un’esigenza del sistema, e spiega perché si stia provando a far pagare qualcosa alle multinazionali senza far saltare, al contempo, quel minimo di tassazione sulle imprese “nazionali”. In sostanza, il governo Meloni sta provando a mediare tra le esigenze di padroni internazionali e padroni nazionali, chiedendo un minuscolo sforzo ai primi, ma solo per favorire i secondi in termini di minori tasse.

Del resto, sulla riduzione delle aliquote di imposta sui profitti delle società siamo in buona (anzi cattiva) compagnia con quasi tutti gli altri paesi, come mostrato anche in un recente studio del Fondo Monetario Internazionale e riassunto nel grafico sottostante, che evidenzia come le imposte sui redditi delle società (CIT, Corporate Income Tax) si siano ridotte considerevolmente quasi ovunque.

   

Infine, la delega si occupa della parte dei “procedimenti” di entrata, che comprendono le fasi della dichiarazione, l’accertamento, il contenzioso e la riscossione. Se la riforma dei tributi mostra una connotazione chiaramente classista, questa sezione mostra una faccia, si potrebbe dire, “banalmente cattiva”. Al grido di “semplificare i procedimenti” e “garantire i diritti dei contribuenti”, infatti, i vari procedimenti (in primis quello di accertamento) vengono in realtà complicati e disseminati di mille micro-oneri procedimentali, in modo da rendere praticamente sempre più difficile il lavoro dell’Agenzia delle Entrate (peraltro una delle pubbliche amministrazioni più depotenziate di personale nel corso di questi anni) e al tempo stesso offrire vie di fuga che di fatto però (attenzione!) saranno accessibili non a tutti, ma solamente a chi può permettersi di pagare onorari importanti a commercialisti ed avvocati. Un Governo quindi forte con i deboli, ma ben attento a fornire sponde a chi decide di risolvere la questione fiscale “in proprio” semplicemente evadendo le imposte. E qui il cerchio si chiude in quanto, come riportato anche nella Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva per l’anno 2022, il lavoro dipendente è l’unica forma di reddito che paga per intero le imposte dovute. Ed è anche la forma di reddito su cui si sentono di più le conseguenze dell’autonomia finanziaria delle regioni. È notizia degli ultimi giorni che la Regione Lazio ha aumentato l’addizionale regionale IRPEF al 3,3% per tutti gli scaglioni di reddito tranne il più basso. Per fare un esempio, ciò vuol dire che per i redditi compresi tra 15.000 e 28.000 euro si passa dal 2,73 al 3,3 per cento.

    

Per chiudere, non serve aspettare la mitica flat tax per tutti (potrebbe pure non arrivare mai nei fatti) per affermare che la delega fiscale non è solo iniqua, avvantaggiando i redditi più elevati, ma anche classista, rappresentando un attacco scientifico al lavoro dipendente. Peraltro, non si può neanche dire che sia innovativa, in quanto come abbiamo visto la progressività fiscale e la tassazione degli utili societari sono sotto attacco da decenni; in questo senso è notevole (anche in questo campo) la continuità fra questa proposta di riforma del fisco e quella già avanzata a suo tempo dal Governo Draghi (comica a questo riguardo la reazione del partito di Calenda, che cavallerescamente ha assicurato che non avrebbe chiesto i “diritti d’autore”).

Tirando le somme, può essere utile sottolineare due caratteristiche di questa legge delega che rendono evidenti le sue connotazioni ideologiche. La prima è l’idea che la riforma del fisco serva innanzi tutto a sostenere la crescita dell’economia (una convinzione tipica di chi, nonostante le numerose evidenze empiriche, attribuisce importanza sproporzionata al lato dell’offerta). La seconda è che la delega, a dire del Governo, non dovrà comportare alcun aggravio al bilancio dello Stato: ancora una volta quindi il Governo Meloni ribadisce la propria adesione ai precetti (europei e non) dell’austerità, preparandoci a un futuro di ulteriori tagli, in particolare alla spesa sociale dello Stato.

Trattandosi di una legge delega, la battaglia sarà lunga e sarà necessario mantenere le coordinate per trovare i modi e le proposte migliori per contrastarla.