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I conti che Massimo Fini non ha mai fatto con il fascismo

I conti che Massimo Fini non ha mai fatto con il fascismo

01/04/2023

da Left

Raul Mordenti

 

A proposito dell'articolo su "Il Fatto quotidiano” (da cui si sono dissociati il direttore e la redazione) è importante far conoscere soprattutto ai giovani cosa è stato il fascismo e cosa è il neofascismo

Credo che meriti una riflessione l’articolo di Massimo Fini (“I conti mai fatti con il fascismo”, pubblicato da Il Fatto quotidiano giovedì 23 marzo) che ha già suscitato la dissociazione del direttore Travaglio e del comitato di redazione.
La capacità giornalistica di Fini e la sua indubbia onestà intellettuale fanno infatti di quell’articolo un megafono di un diffuso e dominante “senso comune” italiano a proposito del fascismo (e sappiamo che il “senso comune” è assai diverso dal buon senso). Manca solo nell’articolo di Fini che “i treni arrivavano in orario” e la bonifica della paludi pontine, ma il resto c’è tutto. Occorre allora impegnarci a verificare la fondatezza di quella narrazione del “senso comune” a-fascista (e in verità, ormai, sempre più anti-antifascista) di cui Massimo Fini si è fatto portavoce, e credo che si possa farlo alla prova dei fatti che, come è noto, hanno la testa dura.

Anzitutto sono davvero “polemiche sepolcrali” (come Fini scrive) quelle nostre contro il fascismo? Che il fascismo o il neofascismo non esistano più suona quasi come una battuta paradossale in un Paese che ha Giorgia Meloni come presidente del Consiglio e Ignazio La Russa come presidente del Senato (cioè, come dicono gli americani per i loro vice-presidenti, “a un battito di cuore” dalla presidenza della Repubblica).
In un recente libretto del dipartimento antifascismo di Rifondazione, intitolato “Dodicesima disposizione” (pubblicato dall’editore Bordeaux, e che si può fruire gratis anche in una versione audio-video con il link seguente:
Disposizione XII – Contro ogni forma (vecchia e nuova) di fascismo: conoscere la storia per combattere nel presente, cerchiamo non solo di informare almeno un po’ su ciò che è stato il fascismo ma anche di argomentare che il neofascismo (cioè il fascismo post-25 aprile ’45) non è stato meno violento del fascismo al potere. Anzi. Risale al neofascismo la terribile scia di sangue che ha accompagnato tutta la storia della Repubblica, aggressioni, attentati, omicidi, terrorismo, bombe, stragi (da piazza Fontana fino alla stazione di Bologna) in una costante minaccia per la stessa democrazia (i tentativi di golpe da De Lorenzo, a Borghese, e tutti gli aspiranti golpisti finivano presidenti del Msi) per non dire di Gelli, Andreotti e Cossiga, e sempre, sempre, il neofascismo è stato uno dei vertici del triangolo di morte che aveva gli altri due vertici nei servizi segreti stranieri (americani e inglesi) e nei servizi cosiddetti “deviati” intrecciati alla massoneria. Tutto ciò è davvero finito nel nulla?
Le pagine finali del libretto che ho poc’anzi citato sono dedicate a un elenco (procurato da un gruppo di madri antifasciste di Roma) di pestaggi, atti di omofobia, antisemitismo e razzismo, sparatorie, attentati e omicidi: ebbene, questo elenco, che si limita al periodo 2014-2021, occupa ben dieci pagine a stampa, e negli ultimi due anni esso si incrementerebbe ancora, e di molto.

Di certo non sono stati gli antifascisti e i comunisti a fare propria (come Massimo Fini sostiene) la tesi crociana del fascismo come “parentesi”: semmai noi abbiamo fatto nostra la terribile definizione di Gobetti del fascismo come “autobiografia della nazione”, cioè come il condensato dei tratti peggiori della nostra storia, la violenza, la prepotenza coniugata al servilismo, il disprezzo per le masse e la democrazia, il militarismo, il maschilismo, l’imperialismo, il razzismo. E proprio perché il fascismo non è stata una parentesi dobbiamo impegnarci a combatterlo oggi come e più di ieri.
E siamo così a discutere della storia che Fini propone (e cercheremo di farlo sempre dati e fatti alla mano). Fini scrive: «la lotta partigiana, pur benemerita, fu marginale in quella tragica epopea che fu la seconda guerra mondiale». Ma diamo la parola alle cifre.
I Caduti nella Resistenza italiana (in combattimento o eliminati dopo essere finiti nelle mani dei nazifascisti), sono stati complessivamente circa 44.700; (si veda l’elenco nominativo nel sito dell’ANPI. Altri 21.200 rimasero mutilati o invalidi. 10.260 furono i militari della sola Divisione Acqui uccisi per essersi rifiutati di obbedire ai tedeschi. Oltre 40 mila le vittime fra gli Imi (Internati militari italiani), e molti morirono nei lager nazisti, a questi sono da aggiungere i deportati, i dispersi, gli internati, i carcerati e i torturati, etc. Tremila italiani si aggiunsero da volontari alle truppe alleate che risalirono l’Italia. Gli scioperi operai del marzo dettero un colpo decisivo al fascismo.

Domandiamoci: quante forze nazifasciste furono impegnate dalle Repubbliche partigiane del Nord e soprattutto per contrastare nell’Italia occupata la costante attività partigiana dietro la “linea gotica”, gli attacchi eroici come quello di via Rasella, l’attività dei Gap e i sabotaggi nelle retrovie o nelle città?
Nulla di paragonabile era mai accaduto nella storia d’Italia, nessuna partecipazione popolare come questa si era verificata mai per una guerra (tranne poche e luminose eccezioni come le Cinque giornate di Milano o la Repubblica romana), ed era una guerra impari contro un avversario armatissimo e feroce, sostenuto per giunta dai collaborazionisti repubblichini. E – si noti questo aspetto decisivo – della Resistenza furono protagonisti operai, artigiani e contadini, gente semplice del popolo e (tante) donne, giovani, studenti, militari, intellettuali e perfino preti. Furono loro i padri e le madri della Costituzione che ancora ci difende.

Ripeto: una cosa mai vista nella nostra storia nazionale. La Resistenza è stata appunto l’eccezione, anzi la smentita, del “Franza o Spagna purché se magna”, che Fini cita come motto permanente degli italiani.
Non ritennero “marginale” il contributo della Resistenza neppure gli alleati anglo-americani (di certo non benevoli data la presenza dei comunisti nella lotta partigiana) che riconobbero il ruolo decisivo della Resistenza italiana per la sconfitta dei nazifascisti, attribuendo per questo all’Italia il ruolo di co-belligerante, ciò che valse dopo la guerra al nostro Paese (troppo spesso lo si dimentica) un trattamento ben diverso da quello riservato alla Germania.

La scelta di abbandonare la folle guerra al servizio di Hitler è definita da Fini con queste parole: «tradendo (…) l’alleato che ci eravamo scelti e schierandoci (…) col vincitore». Ma davvero l’alleato Hitler ce lo “eravamo scelti” oppure quella alleanza era stata imposta dalla dittatura al popolo italiano che non ebbe alcuna voce in capitolo?
E qui veniamo alle nefandezze del fascismo che anche Fini ammette, benché per lui siano solo tre o quattro: anzitutto «far entrare l’Italia in guerra assolutamente impreparata» (e se fossimo stati preparati il giudizio sarebbe stato diverso?), poi il delitto Matteotti, l’esecuzione dei fratelli Rosselli e il lento assassinio di Gramsci, infine «l’adesione alle leggi razziali, che i nazisti non ci avevano nemmeno chiesto» (sic!).

Così si passa un colpo di spugna su troppe cose.
Si dimentica che la stessa presa del potere da parte del fascismo si realizzò con una serie di violenze e di infamie: aggressioni, pestaggi, spedizioni punitive, incendi di giornali e sedi di partito e di leghe, lo scioglimento dei Comuni sgraditi, assassini politici di numerosi quadri dirigenti popolari, il tutto con la complicità del re fellone Vittorio Emanuele III.
Si dimentica che il regime fu di per sé una serie di crimini: l’abolizione del Parlamento (preceduta dalla legge elettorale maggioritaria); la proibizione del partiti politici e dei sindacati; la sovrapposizione del fascismo allo Stato (ad es. con la Milizia); l’istituzione del Tribunale Speciale (furono deferiti 15.806 antifascisti/e, 891 le donne, 12.330 furono inviati/e al confino e ben 160.000 furono gli “ammoniti” sottoposti a “vigilanza speciale”; gli anni totali di prigione inflitti furono 27.735, 42 le condanne a morte); l’imposizione ai professori universitari del giuramento di fedeltà al duce, escludendo dall’Università (senza pensione) chi si fosse rifiutato; la necessità della tessera fascista per lavorare; i licenziamenti politici; l’attività pervasiva dell’Ovra e dei controlli; l’abolizione di ogni libertà di stampa sostituita dalla propaganda ossessiva e unilaterale, etc.

Si dimenticano infine i crimini forse peggiori, la vile aggressione alla libera Repubblica spagnola (già a fianco di Hitler per sostenere il golpe di Franco), e soprattutto le guerre coloniali e imperialiste con l’uso di gas contro i civili, le deportazioni, le stragi. Le leggi razziste (finiamola di chiamarle “razziali”!) furono introdotte dal fascismo ben prima di Hitler, contro gli africani e gli italo-africani.
Se Fini dimentica tutto ciò, allora si spiega anche la ripresa della sciagurata rivalutazione dei “ragazzi di Salò” à la Violante. Il giudizio storico deve evidentemente prescindere dall’età, ma non può prescindere da ciò che costoro fecero, a fianco e al servizio dei tedeschi, impegnati di solito da questi in attività particolarmente efferate, come i rastrellamenti, la delazione, le torture, gli arresti degli antifascisti e degli ebrei.
Che questa spaventosa macchina di oppressione abbia anche ottenuto in una certa fase del consenso non è stato mai negato dai comunisti (si ricordi lo straordinario “Corso sugli avversari” di Togliatti del 1935), ma questo consenso rappresenta un problema (ahimè oggi attualissimo!) per gli antifascisti, non certo una giustificazione per i fascisti.
Per questo occorre studiare e conoscere, e far conoscere soprattutto ai giovani cosa è stato il fascismo e cosa è il neofascismo. Sarebbe importante che tutte le persone libere e per bene (e Fini credo che lo sia) si impegnassero in questo compito, invece di farsi pappagalli del più banale e pericoloso “senso comune” (a-fascista e sempre più anti-antifascista).

 

Nella foto: raduno fascista all’Hotel Brufani a Perugia, dove venne insediato il comando della Marcia su Roma, 1922