03/04/2023
da Valori
Nel 2021 ci impegnammo a fermare i finanziamenti pubblici al fossile estero. Un report svela come quella promessa sia già stata infranta
C’era una volta Glasgow. Era il 2021: l’invasione dell’Ucraina non era ancora iniziata, i governi di tutto il mondo – o almeno la maggior parte di loro – facevano a gara per annunciare gli obiettivi di riduzione delle emissioni più ambiziosi. E l’Occidente si diceva in trincea per «keep 1.5°C alive», mantenere il mondo sotto gli 1,5 gradi centigradi di aumento della temperatura rispetto all’epoca pre-industriale.
Fu in questo clima – e con 200mila manifestanti fuori dai cancelli – che durante il summit sul climate change tenuto in Scozia un gruppo di governi si impegnò a non finanziare più con soldi pubblici progetti esteri legati ai combustibili fossili. Un obiettivo minimo e non sufficiente a fermare la crisi climatica, ma comunque notevole.
A distanza di due anni, però, i nodi iniziano a venire al pettine. E non tutti i firmatari di Glasgow sembrano intenzionati a mantenere la parola data.
Cosa contiene la Dichiarazione di Glasgow
L’accordo è contenuto nella cosiddetta Dichiarazione di Glasgow. I Paesi aderenti – 33, che diventano 39 contando anche le organizzazioni internazionali – hanno assicurato di non voler più investire soldi pubblici nel settore dei combustibili fossili, a partire dalla fine del 2022. Tra le nazioni coinvolte figurano pesi massimi come Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia – oltre alla Banca Europea per gli Investimenti.
Nonostante le numerose scappatoie denunciate già all’epoca dagli attivisti e l’assenza di molte grandi nazioni sviluppate, l’accordo era stato accolto con sollievo. Come ribadito anche da IPCC e IEA, massime autorità mondiali nel campo della climatologia e dell’energia, interrompere i flussi di denaro è uno dei modi più rapidi ed efficaci per fermare nuovi progetti fossili.
Solo pochi rispettano gli accordi
Arrivati al 2023, l’ong Oil Change International ha tracciato un primo bilancio degli esiti della Dichiarazione di Glasgow. I ricercatori hanno tentato di calcolare quanti soldi siano stati sottratti all’industria dei combustibili fossili. Ma soprattuto quanti e quali Paesi abbiano tenuto fede agli accordi.
La buona notizia è che, tra i firmatari di maggior rilievo, sette Paesi e un’istituzione finanziaria internazionale hanno effettivamente adottato policy che rispettano i criteri decisi in Scozia. Si tratta di Regno Unito, Francia, Canada, Finlandia, Svezia, Danimarca, Nuova Zelanda e Banca Europea degli Investimenti. Le loro scelte allontaneranno dal settore dell’energia sporca circa 5,7 miliardi di dollari annui, calcola il report.
Le cattive notizie riguardano tutti gli altri grandi aderenti. Quattro nazioni – Spagna, Svizzera, Olanda e Belgio – hanno adottato regolamenti che, pur limitando l’accesso al credito per i settori da penalizzare, non rispettano la deadline prefissata al 2022 e lasciano margini di manovra per eludere le regole. Peggio ancora fanno tre economie del G7: Stati Uniti, Germania e Italia. Washington non ha reso nota alcuna strategia in materia. Berlino e Roma le stanno ancora discutendo. Ma la scadenza del 2022 è ormai ampiamente superata. E i ricercatori hanno pochi dubbi sulle intenzioni non certo ambiziose di questi due Paesi. Soprattutto l’Italia, guidata da un governo ultra-conservatore, al cui interno numerosi esponenti di rilevo non hanno mancato di esplicitare posizioni incompatibili con la transizione ecologica di cui avremmo bisogno.
L’Italia tace mentre la SACE diventa il primo finanziatore fossile d’Europa
Parlare di finanziamenti pubblici in Italia significa parlare di SACE. Società per azioni controllata al 100% dal Ministero dell’Economia e delle Finanze che si occupa di assicurare molti grandi investimenti infrastrutturali all’estero per conto del governo.
È il gas il combustibile fossile a cui il connubio tricolore di industria privata e finanza pubblica non intende rinunciare. Come denunciato dall’ong Re:Common, SACE conta di finanziare progetti esplorativi ed estrattivi fino al 2026. «E le deroghe presenti potrebbero posticipare la data ultima ancora più avanti», scrivono gli attivisti. Peggio ancora per i progetti relativi al trasporto e allo stoccaggio del gas, per i quali una data di stop non è ancora prevista.
«Attraverso la sua agenzia di credito all’esportazione SACE, l’Italia è diventata il primo finanziatore europeo di combustibili fossili, consentendo lo sviluppo di progetti strategici di petrolio e gas per la Federazione Russa, per non parlare dei progetti di GNL in Mozambico e delle raffinerie di petrolio in Egitto», ha sottolineato Simone Ogno di Re:Common.
Nonostante i risultati non brillanti, il gruppo italiano ha un ruolo di leadership nella definizione delle regole sul credito a livello europeo. «Siamo costretti – prosegue Ogno – a sopportare il fatto che SACE presieda persino il Gruppo di lavoro dell’OCSE sui crediti all’esportazione e le garanzie di credito, cioè l’ente abilitato a discutere le restrizioni sul sostegno ai crediti all’export nel settore Oil&Gas».
Il contesto: IPCC e siccità
Lo studio di Oil Change International è arrivato ai media nella stessa giornata in cui l’IPCC, il Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite, presentava l’ultima parte del suo corposo report. Gli scienziati dell’Onu hanno ammonito i governi sulla necessità di raggiungere il picco delle emissioni climalteranti entro pochi anni per sperare di rimanere entro gli 1,5 gradi di aumento della temperatura media globale. Proprio quell’obiettivo per il quale, a parole, i leader occidentali si erano battuti a Glasgow.
Un altro rapporto, “Droughts in Numbers”, racconta uno degli effetti più attuali della crisi climatica: la siccità. Lo ha pubblicato nel 2022 l’Unccd, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di combattere la deforestazione. È una mappa di crisi non future, ma presenti.
Il Corno d’Africa è il posto nel mondo che più sta soffrendo la carenza di risorse idriche. Il Cile segna un record entrando nel dodicesimo anno consecutivo di siccità. In Europa è la Francia a patire di più. Quello appena concluso è stato l’inverno più arido della sua storia, e per la prima volta Parigi, non potendo raffreddare le sue centrali nucleari (proprio per la mancanza di acqua nei corsi e bacini idrici), ha importato energia invece di esportarla. Un tema che diventa ulteriore scintilla per tensioni sociali, come dimostrano gli scontri attorno al nuovo mega-bacino di Sainte-Soline, costruito proprio per rispondere alla mancanza d’acqua.
Ma anche il nostro Paese soffre. Il CNR parla di 3 milioni e mezzo di italiani in territori esposti a siccità severa o estrema, e sia gli agricoltori sia i gestori dei bacini lamentano da mesi uno stato emergenziale senza fine.
La crisi climatica, insomma, inizia a colpire duramente anche le economie occidentali. Ma né SACE né il governo sembrano per questo intenzionati a chiudere i rubinetti finanziari a chi di questa crisi è responsabile.